Agnese Fallongo, il teatro come se fosse una religione
28 Aprile 2021La messa in scena di uno spettacolo teatrale ben riuscito è il risultato di un abile gioco di squadra. È costituita dall’autore dell’opera a cui si affiancano i registi e gli attori, coordinati da personale specializzato tra cui costumisti, trovarobe, esperti del
suono, attrezzisti. Quando, infatti, si parla di lavoratori del Teatro non si fa riferimento soltanto agli attori, e, soprattutto non solo ai Montesano, ai Gassmann, ai Tognazzi, per cui sarebbe opportuno aiutare tutti quelli che concorrono alla realizzazione della produzione teatrale. Ma il Governo nicchia, incurante di esperienze edificanti come quella spagnola. Infatti la Spagna non ha chiuso mai le fucine di cultura. Musei, Teatri, Sale da concerto e cinematografiche funzionano in assoluta sicurezza. Di questo parliamo con Agnese Fallongo. Laureata in Lettere Moderne presso Tor Vergata (RM), si diploma all’Accademia Internazionale di Teatro di Roma ed all’Académie Internationale des Arts du Spectacle (A.I.D.A.S.) di Versailles, Francia. Si forma con Massimiliano Civica, Mimmo Borrelli, Alessandro
Serra, Carlo Boso, Emmanuel Gallot Lavallèe, Graziano Piazza, Alessandra Fallucchi e Paola Tiziana Cruciani. Studia canto e uso della voce con Silvia Gavarotti, Melania Giglio e presso la Scuola di Musica CIAC di Roma; movimento scenico, mimo e scherma artistica con Lluìs Graells, Elena Serra e Florance Leguy.
Collabora per anni con Ondadurto Teatro (Compagnia Internazionale di Teatro open air) nello spettacolo “Felliniana” come attrice e cantante in tre tournée internazionali. Lavora poi con Carlo Boso e Guy Pion in diversi spettacoli, tutti
presentati al Festival di Avignone Off 2015: “Antigone” di Sofocle, “Il Tartufo” di Molière e “Gli uccelli” di Aristofane. È Eco in “Ovidio Metamorfosi, il Viaggio” regia di Raffaele Latagliata e la vedova Begbick in “Un uomo è un uomo” di B. Brecht regia di Lorenzo De Liberato (spettacolo vincitore della Rassegna Salviamo i Talenti – Premio Attilio Corsini 2017 – Teatro Vittoria, Roma).
Collabora con La MaMa Umbria International per il Festival dei Due Mondi di Spoleto nel concerto/spettacolo per Elizabeth Swados “The Girl with the Incredibile Feeling”, regia di Andrea Paciotto e con Stefano Reali in “Shakespeare & Cervantes – Ghost Writer” al Globe Theatre di Roma. Lavora in tv con Luca Ribuoli e dal 2011 anche come doppiatrice. Nel 2015 vince il Premio Franco Molè come miglior attrice. Con il corto “Donna Regina e le sue sorelle”, da lei scritto e interpretato, vince il Premio gradimento del pubblico – Rassegna Teatrale L’Alba che Verrà a cura di Marioletta Bideri, mentre con lo spettacolo “La leggenda del pescatore che non sapeva nuotare”, del quale è attrice e autrice, (regia di Alessandra Fallucchi) vince la Rassegna Teatrale SHORTLAB 2017 a cura di Massimiliano Bruno, la Rassegna Teatrale Exit Autori 2016 con pubblicazione sul “Ridotto” edito dalla SIAD e riceve una menzione di merito al Premio IneditoColline di Torino 2017, concorso per autori, categoria testo teatrale. È attrice e autrice anche di “Letizia va alla Guerra la suora, la sposa e la puttana” (regia di Adriano Evangelisti) col quale vince il “Premio Ecce Dominae 2015” – Rassegna Teatrale “Donne di guerra” come miglior attrice e premio della critica e “Gli attori premiano il teatro” come migliore novità spettacolo e come miglior attrice giovane 2019. È inoltre attrice e autrice, insieme a Tiziano Caputo, di “…Fino alle Stelle! Scalata in musica lungo lo stivale” che debutta nella stagione 2019/2020 al Teatro della Cometa di Roma riscuotendo un grande successo di pubblico. Docente di interpretazione e scrittura creativa presso il Laboratorio di Arti Sceniche diretto da Massimiliano Bruno.
Come ha vissuto e vive Agnese Fallongo la paura della pandemia ed il disagio legato alle misure restrittive?
La paura è un sentimento fondamentale per l’evoluzione di ogni essere umano, senza di essa non esisterebbe nemmeno il coraggio, quello legato al superamento dei propri timori e dei propri limiti. Ho cercato, fin da subito, di vivere la pandemia come un’occasione di crescita: cosa farne di tutto quel tempo a disposizione? Come
sfruttarlo in modo costruttivo? Nei primi mesi è stato più facile reagire, proprio per quella strana forza vitale e atavica che, spesso, tende a far uscire il meglio delle persone nelle situazioni più difficili. Ho sentito un senso di comunità e di aggregazione come non percepivo da tempo e anche un prolifico fuoco creativo.
Questo, però, finché il virus non mi ha intaccato da vicino, colpendo le persone a me più care: i miei familiari. In quel momento la paura ha completamente preso il sopravvento. La sensazione più difficile da accettare è stata sicuramente l’impotenza: si, perché l’impossibilità di stare fisicamente vicino alla propria famiglia nella malattia è qualcosa di inumano. Fortunatamente, nel mio caso, il nemico silente è stato lentamente sconfitto, lasciando però un timore latente. Un timore
che mi e ci condiziona quotidianamente nei rapporti e nelle relazioni in genere. Come si può aver paura di un abbraccio o di una carezza? Come si può vivere con il terrore di mettere in pericolo i nostri affetti e chi ci circonda? È qualcosa di estremamente complesso e straniante. Per non parlare di tutte le vittime del covid e del dolore dei lori cari, per i quali provo una profonda empatia e vicinanza. Da qualche mese a questa parte, però, ho cominciato a realizzare in modo chiaro che la battaglia più grande che ci viene chiesto di combattere ora non è tanto quella di distruggere il problema, ma di trovare il modo più sano per conviverci. E, per quanto sia difficile accettarlo, bisogna necessariamente fare i conti con questa nuova e bizzarra quotidianità. Il mio animo, di natura ottimista, mi porta a credere che la vita sia più potente della morte e che forse, alla fine di tutto, potremo apprezzare maggiormente quello che ci è stato tolto. Mi piace pensare che questa “guerra” inaspettata possa generare in noi la forza di trasformare la paura in coraggio, il coraggio di essere persone migliori.
Quanti danni hanno arrecato al Teatro la pandemia, i lockdown e la confusa gestione politica?
Il Teatro, purtroppo, era già moribondo ancora prima che la pandemia si scagliasse su di lui come una falce. La situazione attuale non ha fatto altro che portare a galla problematiche che andavano affrontate da tempo. A partire dalla necessità di una radicale riforma del sistema dal punto di vista politico e amministrativo, fino ad arrivare a quella della costruzione di un pubblico di giovani in grado di fruire un tipo di comunicazione molto diversa da quella del mondo televisivo e dei social. Il teatro
non è virtuale, il teatro è reale e lo spettacolo dal vivo, come suggerisce la parola stessa, è legato alla vita e a quella meravigliosa concezione del qui ed ora per cui ogni attimo del tempo che ci viene regalato è unico ed irripetibile, proprio come ogni singola rappresentazione teatrale. Si tratta di una relazione unica, sana e imprescindibile fra attori e spettatori, fra testi che prendono vita per mezzo di corpi e voci palpitanti, fragili, vivi. Tutto questo per giustificare il fatto che, a parer mio, il teatro non morirà mai, almeno finché esisteranno comunità civili. Garcia Lorca scriveva: «Un popolo che non aiuta e non favorisce il suo teatro se non è morto è moribondo». Appurato ciò, la pandemia, i lockdown e la confusa gestione politica non hanno di certo aiutato la già cagionevole salute del settore spettacolo. Al momento è sicuramente tutto da ricostruire e da ripensare. Anche qui, però, non mi sento di crocifiggere nessuno, ma anzi desidero guardare al lato costruttivo della faccenda. Tutto il fermento che si è creato sulla difficile situazione del nostro ambiente è stato generato proprio dalle difficoltà del momento, difficoltà che hanno acceso la luce su un settore al buio, ai margini. Ebbene, sono fiduciosa rispetto al fatto che si possa ricominciare con nuove speranze, consapevolezze, tutele e pubblici desiderosi di ascoltare vecchie e nuove storie. Quelle storie che fanno parte di noi, della nostra identità nazionale ma, soprattutto, del nostro essere umani e
cittadini del mondo.
Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita. Eduardo De Filippo. Cosa rappresenta per Lei il Teatro?
Di solito, come in questo caso, le domande più semplici sono anche le più difficili alle quali rispondere. Sarebbe come chiedermi perché amo qualcosa o qualcuno. L’amore non si può spiegare, si può soltanto vivere. Per me il teatro rappresenta una vera e propria vocazione, come fosse una religione. D’altronde c’è un non
so che di spirituale nell’atto creativo che, a pare mio, riempie la vita di senso. La continua ricerca di bellezza, nella più ampia accezione del termine, mi dà la possibilità di entrare continuamente in contatto con mondi e situazioni a me vicini e
lontani, generando uno stato di empatia in chi interpreta e in chi guarda. La possibilità di raccontare storie, di generare emozioni di ilarità o commozione, è un’arma potentissima, soprattutto in un mondo tecnologico come il nostro, in cui la comunicazione ci impone di essere sempre più veloci e accattivanti. Ecco, amo il
teatro perché tenta di fare esattamente l’opposto. Non essendo un’arte meramente performativa, richiede agli spettatori un tempo più umano, quello necessario per agganciare l’attenzione di qualcuno e di costruire con lui un rapporto più profondo, duraturo e di fiducia. Nella rappresentazione del racconto il fulcro è sempre la relazione fra i personaggi e il tempo di cui dispongono, le due armi più preziose per l’uomo, ancor di più in un momento storico che tende a sottrarcele. Ebbene, forse ora più che mai c’è bisogno di teatro e di quell’insostituibile e indispensabile rapporto uomo-uomo sarà sempre più potente di qualsiasi realtà virtuale.