Aids, antibioticoresistenza e batterio Chimera

Aids, antibioticoresistenza e batterio Chimera

6 Dicembre 2018 0 Di Luigi Garbo

La Simit (Società italiana malattie infettive e tropicali ) fa il punto su Piano nazionale Aids, sull’antibiotico-resistenza e sul batterio Chimera. Tante ombre e poche luci.

 

Il batterio Chimera (mycobacterium chimaera)

 Il caso è scoppiato a fine novembre, quando 16 persone hanno contratto l’infezione (14 in Veneto) e sei sono decedute, tra il Veneto e l’Emilia Romagna. La sua diffusione è legata all’utilizzo di un determinato macchinario, utilizzato a livello mondiale con analoghi risvolti. “A questo tema – si legge in una nota della Simit – abbiamo deciso di dedicare la sessione di apertura del Congresso.

Il tema delle infezioni nosocomiali e delle correlate resistenze batteriche costituisce uno dei totem del Piano Nazionale Simit, messo a punto dal presidente Professor Massimo Galli, che contiene anche il trattamento dei pazienti HIV-AIDS, l’eliminazione dell’epatite C grazie ai nuovi farmaci a partire da sole 8 settimane, il piano vaccini e la gestione delle malattie vettoriali frutto della globalizzazione”.

“Il problema del batterio chimera è noto da qualche anno” spiega Pier Giorgio Scotton, responsabile delle Malattie Infettive dell’Ospedale di Treviso e membro Simit. “Agli ospedali di Treviso e Vicenza lo abbiamo evidenziato già all’inizio del 2017. A seguito di questi casi, in Veneto e in Emilia-Romagna sono state prese delle precauzioni che permettono di mettere in sicurezza le sale operatorie: o lasciando fuori dalle sale operatorie le macchine incriminate o sigillandole.

“I primi provvedimenti già dopo la scoperta nel gennaio 2017 – prosegue la nota. È stato immediatamente attivato un gruppo di lavoro regionale che ha prodotto un documento in comune tra la regione Veneto e la regione Emilia-Romagna nella gestione del problema. È stato deciso di inviare ai pazienti operati dal 2010 in poi una scheda informativa che chiarisce come solo i pazienti con disturbi devono recarsi ne reparti di malattie infettive.

 

Infezioni ospedaliere e antibiotico-resistenza

 Su questo punto si segnala che l’Ema (Agenzia Europea del Farmaco) pochissimi giorni fa, ha emanato un “alert” a tutte le istituzioni sanitarie europee per limitare drasticamente l’uso di alcuni antibiotici. “Sul piano delle infezioni nosocomiali siamo in ritardo”, spiega il professor Giovanni Di Perri, ordinario di Malattie Infettive, Università degli Studi di Torino. “Ci sono dei progressi, ma oggettivamente resta ancora molto da fare. Bisogna innanzitutto utilizzare meglio i farmaci che abbiamo. È poi necessario utilizzare con molta cautela quelli che stanno arrivando, che hanno delle proprietà non particolarmente straordinarie rispetto ai problemi da affrontare, ma restano comunque delle risorse da sfruttare. Per la sanità dei Paesi occidentali questo è uno dei problemi di spicco”.

Se si va ad analizzare l’andamento complessivo delle infezioni negli ultimi 10 anni si riscontra che le infezioni nei reparti medici sono salite a 12,4 casi ogni 100.000 dimissioni (erano 6,9 nel 2007) con un aumento del 79%, mentre per quelle nei reparti chirurgici da 144,59 casi ogni 100.000 dimissioni a 233,1 casi, con un incremento del 61,2%.

I recenti dati riferiti al 2017 dalle più importanti organizzazioni sanitarie a livello mondiale ed europeo (Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS ed il Centro Europeo per il Controllo delle Malattie Infettive – ECDC) affermano che, a causa della resistenza dei batteri agli antibiotici, si verificano 671.689 casi di infezioni, a cui sono attribuibili 33.110 decessi e 874.541 condizioni di disabilità. Di queste infezioni il 63% risultano essere infezioni correlate all’assistenza sanitaria e sociosanitaria. In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, le infezioni ospedaliere hanno un’importanza anche maggiore di tante altre malattie non infettive. Su 9 milioni di ricoveri in ospedale, ogni anno si riscontrano da 450.000 a 700.000 casi di infezioni ospedaliere (circa dal 5-8% di tutti i pazienti ricoverati).

Una buona parte di questi aumenti, in percentuale, è dovuta all’uso eccessivo di antibiotici ed in particolar modo di alcune classi di essi come i chinoloni (ciprofloxacina e levofloxacina) che sono molto usati per la loro facilità di somministrazione per bocca e, di solito, in monodose giornaliera. Tali antibiotici, oltre a determinare effetti collaterali anche rilevanti, hanno raggiunto un tale livello di resistenza, pari al 50%-60. Del resto, secondo i dati forniti dall’ECDC nel 2018, abbiamo il triste primato di essere una delle nazioni europee a più alto consumo di antibiotici insieme a Regno Unito, Finlandia, e Grecia a livello ospedaliero e a livello territoriale insieme a Grecia, Francia e Belgio.

Le regioni dell’emergenza

Secondo i recentissimi dati ufficiali del rapporto 2018, presentato da Aifa, a luglio di quest’anno, si riscontra una notevole differenza Nord-Sud. “Prendendo in considerazione le dosi di farmaco consumate ogni 1000 abitanti – aggiunge il Prof. Tinelli – è la Campania la regione ad avere il maggior consumo di antibiotici (29,0 DDD), seguita dalla Puglia (26,8 DDD), Calabria (26,6 DDD) e dall’Abruzzo (25,4 DDD). La Provincia Autonoma di Bolzano ha il consumo piu basso (12,7 DDD), seguita dalla Liguria (15,9), dal Veneto (16,9 DDD) e dal Friuli Venezia Giulia (17,5 DDD). Molti sono i motivi dei consumi elevati: si va dalle differenti abitudini prescrittive spesso non appropriate nelle varie regioni, sia a livello ospedaliero che territoriale, al non sempre ottimale monitoraggio dei farmaci ed anche alla vendita di antibiotici senza prescrizione nelle farmacie (per fortuna in una percentuale limitata)”.

 

L’appello al Governo della Simit

“La gestione dell’antibiotico-resistenza e le conseguenze ad essa correlate – conclude il Professor Tinelli – rimangono uno i problemi principali, se non il problema principale, della salute pubblica nel nostro paese, come del resto evidenziato più volte ed in più occasioni da tutte le organizzazioni sanitarie internazionali. E’ evidente che se il Governo non metterà mano ai cordoni della borsa prevedendo che nel DEF 2019 una quota di investimenti sarà dedicata e vincolata alla gestione del problema “antibiotico resistenza”, almeno per alcune priorità più urgenti ed indilazionabili, il nostro Paese rimarrà il fanalino di coda dell’Europa a scapito di tutti i cittadini”.

 

Piano Nazionale AIDS

“Negli ultimi anni il numero di nuove infezioni si stima che sia rimasto stabile, ma lo scarso e nella maggioranza dei casi tardivo ricorso al Test Hiv in Italia e l’evidente caduta d’attenzione sul tema prevenzione suscitano preoccupazione”, sottolinea il Professor Massimo Galli.

Il Piano Nazionale Aids è stato elaborato come preludio alla auspicabile revisione delle Legge 135 del 90 – “Piano degli interventi urgenti in materia di prevenzione e lotta all’AIDS”, ormai superata, ed è espressione di un forte coinvolgimento con le associazioni di volontariato per organizzare, il cui ruolo fondamentale per raggiungere con interventi di prevenzione efficaci le popolazioni chiave, nelle quali il rischio di trasmissione è più elevato.

“A distanza di quasi 30 anni dalla Legge 135, la situazione è profondamente cambiata non solo in termini epidemiologici, ma anche per quanto attiene alla realtà socio-assistenziale”, spiega il professor Galli. “Rimangono ancora questioni irrisolte, prima fra tutte il persistere della diffusione dell’infezione: negli ultimi anni il numero di nuove infezioni si stima che sia rimasto stabile, ma lo scarso e, nella maggioranza dei casi, tardivo ricorso al Test HIV in Italia e l’evidente caduta d’attenzione sul tema prevenzione suscitano preoccupazione. E questo in una situazione in cui lo stigma, frutto anche del ritorno dell’ignoranza, continua ad imperversare”.

 

Gli obiettivi

Sulla base di questi presupposti, il Piano Nazionale Aids 2017-2019, ispirato dalle agenzie internazionali ha posto i seguenti obiettivi prioritari: ridurre il numero delle nuove infezioni; facilitare l’accesso al test e l’emersione del sommerso; garantire a tutti l’accesso alle cure; mantenere in cura i pazienti diagnosticati; migliorare lo stato di salute e di benessere delle persone infette; coordinare i piani di intervento sul territorio nazionale; tutelare i diritti sociali e lavorativi delle persone infette; promuovere la lotta allo stigma; coinvolgere attivamente le popolazione chiave.

“A un anno dall’approvazione del Piano, la sua applicazione è ancora ferma in gran parte delle Regioni italiane”, aggiunge il prof. Galli. “Ai quattro gruppi di lavoro costituiti presso il Ministero della Salute, che stanno procedendo validamente per il coordinamento degli interventi d omogeneizzazione della raccolta e del flusso dei dati, della formazione degli operatori, degli interventi di prevenzione e dei percorsi di assistenza e di mantenimento in cura partecipano una parte delle Regioni. La richiesta inoltrata dal Ministero per la costituzione in ogni Regione delle Commissioni AIDS, strumento importante richiesto dal piano e fondamentale per la sua applicazione, è ancora ampiamente inevasa. Gli interventi di prevenzione nelle scuole richiedono un lavoro comune con il Ministero dell’Istruzione (Miur) che non sembra prendere il via”.