Alessandra Bassi, la denuncia della corruzione ai tempi del Covid

Alessandra Bassi, la denuncia della corruzione ai tempi del Covid

22 Marzo 2021 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

 

 

Con l’insorgere dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 nei primi mesi del 2020, i media ed i servizi specializzati hanno fin da subito iniziato a parlare di un probabile futuro aumento dei casi di violenza contro le donne, tra le mura domestiche a causa del maggior rischio di violenza dovuto al confinamento forzato (lockdown) ed alle difficoltà per le vittime conviventi con il maltrattante a denunciare e rivolgersi ai servizi di supporto. In particolare, molte donne che svolgevano lavori informali, che hanno perso durante la quarantena sono risultate maggiormente esposte, essendo costrette a lunghe permanenze in casa e diventando in misura maggiore economicamente dipendenti dai loro compagni con conseguenti maggiori difficoltà a sottrarsi alla violenza.

L’aumento dei casi di violenza di genere nel mondo, come conseguenza della pandemia, è stato chiaramente indicato dall’indagine pubblicata da CEPOL, nel luglio 2020, e dalle stesse Nazioni Unite, che hanno definito questo fenomeno “pandemia ombra” proprio per sottolinearne l’impatto devastante. A livello Internazionale ed Europeo, sono state fornite raccomandazioni e linee-guida per fronteggiare in emergenza le situazioni di violenza, che hanno sottolineato l’esigenza di rafforzare i servizi specializzati di supporto ed ospitalità per le donne, sia con riferimento al numero di strutture che alle modalità di lavoro, in primis per quanto concerne la possibilità di operare da remoto, e di favorirne l’accesso attraverso capillari azioni di comunicazione istituzionale ed orientamento ai servizi per le vittime. L’attenzione è stata posta anche sull’aspetto più che mai cruciale del lavoro in rete, da parte dei servizi specializzati e generali, per fronteggiare le particolari criticità che i casi di violenza assumono in una situazione di emergenza sanitaria e sulla necessità di fornire adeguato sostegno economico ai servizi anche per poter operare in sicurezza.

In questo contesto, anche in Italia, l’esplosione dei casi di violenza è stato sostanziale. Se si guarda ai dati delle chiamate al numero verde nazionale antiviolenza 1522 si può, infatti, notare come dal 1° marzo al 16 aprile 2020 ci sia stato un aumento del 73% rispetto allo stesso periodo del 2019 con un aumento delle vittime che hanno chiesto aiuto del 59% rispetto allo scorso anno (ISTAT, 2020). I casi emersi, durante la quarantena, hanno confermato la caratteristica trasversalità della violenza, in quanto il fenomeno colpisce tutte le fasce di età e tutti i livelli sociali.

In particolare, hanno richiesto aiuto donne tra i 30 e 50 anni, coniugate e con un titolo di studio medio-alto. Circa il 40% risulta svolgere un’attività lavorativa e solo il 27% ha dichiarato di essere disoccupata ed in cerca di lavoro.

La difficoltà economica delineata, durante la pandemia e la limitazione della libertà personale, ha però inciso profondamente sulle dinamiche familiari, determinando un aggravamento di una situazione già pregressa di violenza, con un aumento della violenza fisica, psicologica ed economica.

 

Di questo delicato argomento di dolente attualità, parliamo con Alessandra Bassi, consigliera della Corte di cassazione.

In magistratura dal 1991, ha svolto il periodo di uditorato presso gli uffici giudiziari milanesi e, con il conferimento delle funzioni giurisdizionali nel gennaio 1993, ha ricoperto le funzioni di giudice del dibattimento del Tribunale di Milano e, successivamente, di giudice del “Tribunale della libertà” di Milano; dal giugno 2008 al gennaio 2014, è stata Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino e, dal gennaio 2014, è in servizio presso la Sezione Sesta Penale della Suprema Corte di Cassazione, quale Consigliera. Il 10 marzo 2021, è stata nominata dal Consiglio Superiore della Magistratura Presidente di Sezione della Corte d’Appello di Torino, dove prenderà servizio a breve.

Nella quasi trentennale attività professionale, Bassi si è occupata di diversi maxi-processi di criminalità organizzata, aventi ad oggetto associazioni per delinquere finalizzate all’attività di narcotraffico operanti sul territorio nazionale ed internazionale e di stampo mafioso (trattando, fra gli altri, il procedimento c.d. Minotauro); di procedimenti per delitti contro la Pubblica Amministrazione ed in danno della U.E. nonché di criminalità finanziaria (per tutte, delle procedure de libertate concernenti il c.d. caso Antonveneta); di procedimenti per responsabilità degli enti derivanti da reato ex d.lgs. n. 231/2001, gestendo il commissariamento di alcune persone giuridiche. Quale Consigliera della Corte di Cassazione, oltre che di procedimenti in tema di criminalità organizzata, delitti contro la Pubblica Amministrazione ed estradizioni, si occupa anche di reati contro la famiglia.

Prima dell’inizio della carriera in magistratura, Bassi è stata cultore della materia presso il dipartimento di diritto processuale penale dell’Università degli Studi di Firenze. Parallelamente all’attività professionale di magistrato, ha svolto attività di docenza presso le Scuole di Specializzazione delle Professioni Legali delle Università di Milano e di Torino.

Sin dal 2003, si occupa di organizzazione e di informatizzazione dell’attività giudiziaria. In particolare, ha collaborato con la Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia; ha ricoperto l’incarico di magistrato di riferimento per l’informatica e di  capo progetto per la creazione di una banca dati giurisprudenziale presso il Tribunale di Torino; ha composto diversi gruppi di lavoro per l’implementazione delle notifiche telematiche negli uffici di merito ed in Cassazione nonchè per la ricostituzione della banca dati “Archivio Merito” presso Italgiure Web.

E’ autrice di numerosi scritti, monografici e collettivi, in tema di diritto penale sostanziale e processuale, e viene periodicamente invitata a convegni in materie giuridiche e ad incontri di studio presso la Scuola Superiore della Magistratura. Dal 2018, compone l’Ufficio della Formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura presso la Suprema Corte di cassazione.

Come ha gestito e gestisce Alessandra Bassi la paura della pandemia ed il notevole disagio per le indispensabili misure restrittive?

 

Il periodo della pandemia ha inciso pesantemente sull’attività giudiziaria. Dopo i primi due mesi iniziali – nei quali il Governo ha optato per un sostanziale congelamento dell’attività giudiziaria  non urgente, prevedendo il rinvio d’ufficio dei processi -, l’indicazione  è stata quella di gestire l’attività ordinaria in parte da remoto, avvalendosi degli strumenti telematici o incentivando il ricorso al processo “cartolare”, in parte in presenza, su richiesta delle parti. Ciò per evitare che un servizio essenziale quale quello della giustizia si fermasse, soprattutto nel settore penale che investe aspetti delicatissimi della persona sottoposta a procedimento e delle persone offese.

La prosecuzione dell’attività giudiziaria ha inevitabilmente comportato per tutti coloro che operano nel mondo della giustizia (magistrati, personale amministrativo e avvocati) la sottoposizione al rischio di contagio e la conseguente necessità di adottare tutte le precauzioni e le misure organizzative necessarie per scongiurare la contrazione del virus, purtroppo non sempre efficaci, se solo si considera che gli uffici giudiziari non sono strutturalmente concepiti per garantire il distanziamento interpersonale, non prevedono barriere fisiche e non sono adeguatamente areati. Il che rende le sedi in cui si amministra la giustizia, a tutti gli effetti, dei luoghi a rischio. La situazione risulta ancor più problematica per i consiglieri della Corte Suprema di cassazione non residenti a Roma – come appunto la sottoscritta – che, oltre a dover affrontare le criticità appena segnalate nella sede di lavoro, sono costretti a viaggiare periodicamente in treno o in aereo per raggiungere la Corte nella Capitale, con un’ulteriore esposizione al pericolo di contagio. In questo contesto, desta sconcerto il fatto che le nuove Linee Guida del Piano strategico per la vaccinazione anti COVID-19 non prevedano più, tra i gruppi target di popolazione cui offrire il vaccino in via prioritaria, le categorie di lavoratori appartenenti ai servizi essenziali e, fra questi, quelli del comparto giustizia, opzione severamente censurata dall’Associazione Nazionale Magistrati nella delibera del 14 marzo 2021.

Tornando alla sua domanda, io ed i colleghi – pur perfettamente consapevoli dei rischi e, chi più chi meno, preoccupati dalla prospettiva di essere contagiati – abbiamo continuato a svolgere il nostro lavoro con dedizione e spirito di servizio, tanto che, nonostante diversi magistrati ed operatori dell’amministrazione abbiano contratto il virus,  la macchina giudiziaria non si è mai fermata ed ha continuato a garantire l’espletamento del servizio nell’interesse della collettività.

“Come magistrati abbiamo il dovere inderogabile di applicare le Leggi dello Stato, quali esse siano, salvo il dovere altrettanto inderogabile di eccepirne la legittimità costituzionale qualora questa ricorra.” Francesco Saverio Borrelli. Quanto è difficile per un Magistrato emettere un giudizio?

La nostra Costituzione, nata sulle macerie di una dittatura e di una guerra sanguinosa, è imperniata sulla tutela dei c.d. diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. Fra questi, una posizione primaria è assicurata alla tutela del diritto del cittadino ad una giustizia “giusta”, che passa attraverso la salvaguardia del diritto di difesa e del diritto un “giusto processo” presidiati dagli artt. 24 e 111 Cost., corredati dalla previsione dell’art. 101 Cost. che appunto sancisce, al comma secondo, che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Con il duplice corollario che, per un verso, l’esercizio dell’attività giurisdizionale – cioè l’operato dei giudici –   non può subire condizionamenti o controlli da parte del Governo o di altri soggetti pur muniti di poteri pubblicistici: la legge costituisce la fonte di legittimazione della funzione giudiziaria e ne rappresenta anche l’unico limite. Con questa previsione, i Padri costituenti hanno voluto garantire l’indipendenza funzionale dei giudici – obbiettivo rafforzato dalla previsione espressa dell’art. 104 Cost. e dagli strumenti ivi previsti -,  là dove, come anche di recente affermato dal Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), organo del Consiglio d’Europa, “l’indipendenza della magistratura è una condizione preliminare dello Stato di diritto e una garanzia fondamentale di un processo equo” e “l’indipendenza come condizione di imparzialità dei giudici offre quindi una garanzia di uguaglianza dei cittadini davanti ai tribunali”.

Per altro verso,  l’art. 101, comma secondo, Cost. sta a significare che i giudici sono vincolati, obbligati, a rispettare la legge e ciò anche quando le norme che essi sono chiamati ad applicare siano contrarie alle proprie convinzioni etiche, ideologiche o politiche. Declinazione anch’essa all’evidenza funzionale a garantire il rispetto del principio di legalità, la certezza del diritto e dell’applicazione della legge e, quindi, ad assicurare in concreto l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge.

In altri termini, per i giudici non esiste l’obiezione di coscienza, invece prevista in ambito sanitario, ed essi sono sempre tenuti a rendere giustizia secondo la legge. Questo non significa che non vi siano degli “spazi di manovra” nell’applicazione della legge. Gli addetti ai lavori sanno benissimo come anche la norma più chiara possa prestarsi a letture ed interpretazioni diverse e, dunque, ad applicazioni dissimili pur in relazione al medesimo caso concreto. Proprio per questa ragione, il nostro Ordinamento Giudiziario prevede all’art. 65 che la Corte Suprema di cassazione – giudice nazionale unico di ultima istanza –  debba assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni“, cioè svolgere la c.d. funzione nomofilattica. Si tratta di una funzione fondamentale in quanto strumento di garanzia della certezza del diritto e dell’uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge e, pertanto, diretta espressione dei principi sanciti dalla Costituzione.

Ma proprio perché la Costituzione costituisce l’ossatura fondamentale del nostro ordinamento giuridico (assieme ai principi del diritto euro-unitario e del diritto convenzionale nel nostro ordinamento ormai “multilivello”), il giudice è munito del potere/dovere di denunciare l’eventuale contrasto fra una disposizione di legge ed i principi costituzionali e, dunque, di rimettere la questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale – che è appunto il “guardiano” della Carta Fondamentale – così da consentirne la rimozione, in caso di rilevata fondatezza della questione dedotta. 

Venendo alla seconda parte della sua domanda, il mestiere del giudicare è indubbiamente molto impegnativo. Al peso del giudicare la vita di un altro essere umano ed al senso di responsabilità che costantemente accompagna chi esercita la giurisdizione – non a caso nell’antichità considerata sacra ed espressione del potere massimo del clero o del sovrano – si aggiungono anche rilevanti problematicità di ordine tecnico. Da un lato, la difficoltà di districarsi in una legislazione pletorica, disorganica e spesso non perfettamente allineata ai fenomeni da regolare. Dall’altro lato, e soprattutto, la complessità del momento decisionale, che si snoda attraverso la valutazione delle prove, documentali e dichiarative – con ineliminabili momenti di discrezionale apprezzamento del giudice in ordine alla credibilità ed affidabilità del narrato -, la ricostruzione storico-naturalistica della vicenda oggetto del processo – cioè la composizione di un quadro coerente assemblando le diverse tessere del mosaico acquisite al fascicolo processuale, operazione anch’essa implicante  spazi valutativi del decidente – e quindi la qualificazione giuridica del fatto e la pronuncia delle conseguenze stabilite dalla legge, momenti parimenti connotati da profili di discrezionalità, sia pure tecnica, sul piano dell’interpretazione da assegnare alla norma da applicare. Aspetti affidati al prudente apprezzamento del giudice, che devono comunque essere resi intellegibili all’interessato e alla collettività attraverso la stesura della motivazione della decisione ed eventualmente rivedibili nei gradi di impugnazione.

La pandemia, secondo la Sua esperienza professionale, al di là della lentezza che ha causato nei processi, ha implementato la rete, la mappa della corruzione trasversale, obliqua, liquida per quanto concerne la gestione dei fondi economici per la Sanità, per i mercati dei vaccini, ma anche per il potere di welfare territoriale nei confronti dei milioni di nuovi poveri?

 

Come la storia giudiziaria degli ultimi cinquant’anni mostra, la corruzione costituisce purtroppo un fenomeno profondamente radicato in Italia, difficilissimo da contrastare nonostante gli sforzi normativi ed operativi messi in campo. La nostra legislazione è all’avanguardia quanto alla previsione di strumenti di contrasto del fenomeno corruttivo: le fattispecie incriminatrici in materia sono plurime e coerenti con la normativa euro-unitaria sul tema, le sanzioni per i delitti di corruttela sono state, di recente, inasprite; il codice penale prevede misure di natura patrimoniale assai incisive e l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) è munita di poteri ad hoc per la prevenzione delle forme di corruttela in seno alla Pubblica Amministrazione. Tuttavia, il fenomeno ha radici profonde, è pervasivo, quasi sistemico, trae linfa vitale dalla complessità e dalla poca trasparenza dei processi decisionali e prolifera grazie anche alla poco efficienza dei controlli amministrativi. In più, si tratta di una forma di criminalità che – diversamente da altre manifestazioni delittuose “unidirezionali” (come il furto, la rapina o le violenze) – le parti interessate non hanno, di norma, alcun interesse a far emergere e a denunciare e che risulta pertanto estremamente difficile da snidare ed eliminare.

In un momento storico complesso come quello che stiamo vivendo a causa dell’emergenza pandemica, l’esigenza di adottare decisioni di spesa urgenti, l’allentamento dei controlli e l’orientamento dell’attenzione dell’opinione pubblica verso problemi più gravosi – legati alla sopravvivenza, alla salute  e alla grave situazione economica – possono avere certamente offerto un terreno fertile per fenomeni corruttivi, che alcune inchieste in corso hanno già in parte disvelato. Per l’immediato futuro, la fase di gestione del programma Next Generation EU imporrà un’attenzione estrema sulla destinazione delle enormi risorse che arriveranno in Italia. In particolare, si dovrà trovare un equilibrio ragionevole fra l’esigenza, certamente condivisibile, di semplificazione delle procedure amministrative, con una parziale riscrittura del Codice degli appalti pubblici – nell’ottica di realizzare una deburocratizzazione dei processi decisionali, un’accelerazione dei processi esecutivi e, più in generale, un recupero di efficienza nell’azione della P.A.  -,  e l’esigenza – assolutamente cruciale – di assicurare che i fondi conferiti dall’Europa siano investiti bene, e sino all’ultimo centesimo, in modo coerente rispetto ai progetti approvati, senza dispersioni o distrazioni verso finalità non pubblicistiche, interessi economici privati o delle mafie. Temo però che, per assicurare lo snellimento e la velocizzazione delle procedure di gara e di aggiudicazione degli appalti, invocando l’implementazione a regime del modello del “ponte Morandi” – che ha però rappresentato un unicum –, si finisca per allentare le maglie dei controlli sulla destinazione di risorse, che invece possono e debbono essere impiegate per una svolta economico-sociale e per la modernizzazione del Paese e che non possiamo permetterci di non sfruttare appieno.

Per quale motivo, secondo Lei, le donne che testimoniano coesione, compattezza, sororità pur essendo la maggioranza della popolazione italiana, non sono maggioranza in Parlamento e persiste il Gap-Gender?

L’8 marzo di ogni anno, la stampa e la televisione danno risalto alla questione femminile, facendo luce sulle disparità di genere che ancora si registrano in Italia – e, per vero, nella gran parte dei Paesi del mondo – in ambito lavorativo, economico e sociale. E’ sotto gli occhi di tutti come la situazione scaturita dall’emergenza sanitaria e dalla grave crisi economica che ne è derivata abbiano ulteriormente inasprito il gender gap, sia perché tale situazione ha impattato più pesantemente sull’occupazione femminile, tanto che – secondo dati ISTAT di recente pubblicati – il 98% di chi ha perso lavoro nell’ultimo periodo è donna; sia perché la gestione delle criticità del quotidiano è ricaduta ancora una volta quasi esclusivamente sulle donne.

Nell’articolo pubblicato qualche giorno fa su “Repubblica”, Nadia Saraceni ha messo a nudo la visione della famiglia e della donna che traspare dalla regolazione degli aiuti alle famiglie durante l’ultimo lock-down disciplinata dal decreto del 12 marzo 2021, che – ad asili e scuole chiuse all’attività in presenza – fa ricadere sui genitori impiegati in un “lavoro agile” e, in particolare, visto il modello familiare più diffuso in Italia, sulle madri che lavorano a distanza, la gestione esclusiva della prole. Il che significa, ancora una volta, relegare il lavoro femminile ad un’attività di secondo piano, subalterna a quella della cura dei figli e della famiglia, con un inaccettabile ritorno al passato. Eppure le donne sono molto brave sul lavoro, preparate e serie, e riescono ad eccellere in campi prima riservati ai soli uomini, come anche la pandemia ha dimostrato, disvelando un plotone di mediche, scienziate, ricercatrici ed esperte bravissime, che l’Italia non si era accorta di avere. E allora, quale può essere la soluzione? Credo che sia necessario un intervento multilivello. Sono innanzitutto necessarie politiche sociali che assicurino un sostegno effettivo alle famiglie con figli, garantendo a tutti i bambini – al Nord e soprattutto al Sud d’Italia – un posto negli asili nido, nelle scuole materne e nel tempo pieno alle scuole elementari. Solo così sarà possibile dare alle donne che vogliono lavorare l’opportunità di farlo senza “fardelli familiari”, che inevitabilmente minano la parità di opportunità quanto alla possibilità di dedicarsi al lavoro e di realizzarsi nel lavoro, che fanno spesso preferire al datore di lavoro un lavoratore ad una lavoratrice o che, comunque, inducono a remunerare la donna con un salario più basso perché lavoratrice “gravata dal carico familiare” e, anche solo psicologicamente, non “a tempo pieno”. Visto lo squilibrio nella copertura dei ruoli apicali – che si riscontra anche in magistratura dove ormai le donne sono il 52% -, credo poi che non si debbano demonizzare le “quote riservate” nelle posizioni di responsabilità e negli incarichi istituzionali e politici, che anche in altri Paesi hanno dimostrato essere uno strumento efficace per una “educazione” culturale alla parità di genere e di opportunità. E’ inoltre fondamentale lavorare sulla “cultura diffusa”, proponendo sui media un modello femminile diverso e più aderente alla realtà sociale ed economica attuale. A tale proposito, ho molto apprezzato la campagna “No women no panel”, lanciata da Mariya Gabriel (Commissaria Europea per l’Innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e la gioventù) e fatta propria anche da Radio 1, per incentivare la presenza equilibrata dei generi in tutte le  discussioni pubbliche. Nel mio piccolo, quale formatrice decentrata della Scuola Superiore della Magistratura, cerco sempre di garantire la presenza femminile fra i relatori ai vari incontri di studio presso la Corte di cassazione.

E poi c’è l’annosa e drammatica questione della violenza in famiglia. Come Lei ha già rilevato in premessa, l’emergenza sanitaria, l’imposizione del lock-down o, comunque, delle restrizioni alla libertà di locomozione nonchè il lavoro da remoto hanno comportato la “coabitazione forzata” della gran parte dei nuclei familiari, con il conseguente aggravarsi delle dinamiche di violenza e prevaricazione ed il sensibile aumento dei casi giudiziari di maltrattamenti e femminicidi. Il tema della violenza di genere è strettamente connesso alla visione della donna nella società e nei rapporti familiari, è figlia di una concezione ancora radicata dell’uomo come padre-padrone con potere decisionale e autorità su tutti i componenti della famiglia e, in particolare, sulla donna, e quindi della resistenza maschile – almeno di una parte degli uomini – ad accettare l’indipendenza, l’autonomia e la libertà di interrompere una relazione da parte della compagna. Tale orribile ed inaccettabile forma di criminalità non può però essere contrastata soltanto con la risposta giudiziaria, ma presuppone un mutamento culturale dei rapporti uomo-donna ed anche una maggiore consapevolezza femminile dei propri diritti e delle proprie potenzialità.