Ammalarsi di adrenoleucodistrofia
18 Dicembre 2019Dalla Campania la storia di Alba, mamma a 18 anni, in una “missione” che oggi, per altre famiglie, potrebbe avere un finale diverso se si facessero gli opportuni interventi.
La storia della signora Alba dev’essere un monito alle istituzioni e a chi ha il potere di rendere possibile un cammino ed un esito diverso per i neogenitori, ma anche per chi è affetto da adrenoleucodistrofia, una malattia terribile per il suo decorso e per l’impatto devastante che ha sui pazienti e le famiglie che ne vengono totalmente coinvolte. L’accidentato e doloroso percorso di Alba, con il fardello dell’adrenoleucodistrofia, comincia sul finire degli anni ’70, quando suo fratello di 11 anni a scuola manifesta disturbi comportamentali, perde spesso il controllo di sé: le insegnanti lo indirizzano ad un supporto psicologico.
In seguito, gli viene diagnosticato un sospetto di leucodistrofia e viene suggerito alla famiglia di fare ulteriori indagini, ma nessuno ne indirizza i componenti, non vi è una reale presa in carico, e quella parola rimane lettera morta. Quasi in concomitanza, dopo un evoluzione molto rapida della malattia, Alba perde il fratello e il suo piccolo Antonio, che di anni ne ha 8, comincia a manifestare problemi comportamentali e motori: “si confondeva, urtava contro i cancelli, dimenticava il percorso per andare a scuola”, ricorda con dolore.
Alba ha il timore che possa trattarsi della stessa malattia che ha portato via suo fratello così fa visitare il piccolo da un neuropsichiatra che gli diagnostica un’epilessia, anche se Antonio di convulsioni non ne ha. Nel frattempo il senso di solitudine, di isolamento e di inadeguatezza cresce: forse è lei che si sta suggestionando, che sta proiettando la sua ansia sul figlio, come le viene detto da più parti, anche dagli stessi medici. Alba, durante una vacanza con la famiglia d’origine in Germania, nutre la speranza di poter far visitare Antonio da un ulteriore specialista. Lo incontra e gli racconta i sintomi ed è lì che le viene detto che probabilmente è una cosa davvero seria. Dopo un anno di peregrinazioni, Alba arriva finalmente al Vecchio Policlinico di Napoli.
È lì che il professor Cotrufo diagnostica al piccolo Antonio l’Adrenoleucodistrofia. Alba è disorientata: torna dal neuropsichiatra e gli comunica la diagnosi, ma lo specialista parla di un errore diagnostico, ne sminuisce l’importanza, diminuisce al piccolo la dose di antiepilettico da assumere. Antonio, i cui sintomi neurologici avanzano inevitabilmente, va in coma. Alba ne ottiene il ricovero al Santobono, poi torna a cercare un punto di riferimento al Vecchio Policlinico. È smarrita: sente che è qualcosa di troppo più grande di lei. Avere una diagnosi già per suo fratello avrebbe voluto dire poter fare scelte basate su una consapevolezza diversa.
Al Vecchio Policlinico incontra una professionista e prima ancora la persona che non la abbandonerà mai in tutto il suo percorso con Antonio: si tratta di Marina Melone, oggi direttrice del Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche avanzate & Centro interuniversitario di ricerca in neuroscienze dell’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli.
“Ho cercato di procrastinare le dimissioni dall’ospedale – racconta – avevo letteralmente il terrore di essere sola a casa, ma la professoressa Melone mi promise che avrei potuto chiamarla in qualsiasi momento per qualsiasi problema, anche a casa, e così è stato, l’ha fatto davvero. Lei mi ha dato la forza di andare avanti. Mi è sempre stata vicino e quando ero davvero disperata è venuta persino a casa per darmi indicazioni e supportarmi. Antonio ha vissuto con questa malattia per ben 23 anni e noi insieme a lui”.
Alba affronta tutto da sola, non chiede aiuto a nessuno: notte e giorno ad assistere Antonio, senza uscire di casa. Notti lunghissime in cui suo figlio soffre, piega la schiena ad arco, suda anche d’inverno, si lamenta e respira con difficoltà. Alba si inventa ogni cosa, lo culla con dolcezza, anche quando Antonio non è più un bimbo, ed a volte riesce a portargli sollievo. Un giorno Alba, in tv, vede i coniugi Odone: sono diventati esperti mondiali della malattia del suo Antonio, hanno creato persino una miscela di olii che ne rallenterebbe la progressione! Il loro figlio Lorenzo ne è affetto.
È uno spiraglio. Li contatta e grazie a loro conosce un’altra mamma, Pompea, e suo figlio, il piccolo Giovanni. Vuole incontrarla, parlarle da vicino e conoscere gli effetti dell’assunzione dell’olio. Quindi un bel giorno monta in auto e parte alla volta di Formia, per raggiungerla.
La malattia di Antonio è troppo avanzata per assumere l’olio, ma Alba ha altri due figli! Anche Vincenzo, il secondogenito, ha la mutazione genetica e la malattia si esprime come adrenomieloneuropatia, una forma meno grave che coinvolge prevalentemente gli arti inferiori e lo condurrà a stare in sedia a rotelle. Per lui l’olio e la dietoterapia potrebbero fare la differenza, ma Vincenzo sente che è difficile, impossibile, accettare i cambiamenti profondi che hanno letteralmente travolto la sua vita, i suoi progetti, i suoi orizzonti, le sue speranze.
L’ultima figlia di Alba, invece, che avrebbe potuto ereditare lo stato di portatrice, non ne è coinvolta. Ha fatto l’analisi genetica due volte: quando è arrivata la diagnosi per Antonio e quando ha deciso di sposarsi, con la prospettiva consapevole di diventare mamma.
Oggi purtroppo Antonio non c’è più, ma Alba non ha mai smesso di parlargli, neanche quando tutti le dicevano che era inutile, che era sordo e cieco e non poteva sentirla. Oggi, mentre cura una rosa in giardino, con il pensiero la porge al figlio, affinché, condividendola, possano sentirne finalmente il profumo, vederne la bellezza e toccarne i petali delicati.
“Vorrei tanto – ribadisce Alba – che per il futuro e per gli altri le cose possano andare diversamente. Questa malattia coinvolge tutta la famiglia e distrugge tutto”.