Coronavirus, l’odissea di Bernadette
10 Aprile 2020La dottoressa Bernadette Grossi, ricoverata perché affetta dalla temuta infezione virale ed oggi presumibilmente guarita, non riesce a tornare a casa. Incredibile ma vero.
Le pene “accessorie” di un’infezione da Covid-19. La paziente è un fiume in piena nel suo racconto e più di ogni commento vale la pena di seguire la storia così come la espone la diretta interessata. Tutto comincia lo scorso 10 marzo. “Vengo ricoverata presso l’Ospedale Moscati, diagnosi: lieve polmonite. Dopo cinque giorni mi viene praticato il tampone ma nessuno mi comunica l’esito. Dietro mia insistenza, un’infermiera mi dice: “Pare negativo“. Pare?! Continuo a chiedere. Mi risponde dicendomi che non sono certi del referto del Cotugno e preferiscono ripeterlo loro. Arriviamo al 16 marzo, ripeto l’esame. Il 17 marzo mi chiama tutta la mia famiglia per dirmi che ero positiva. Io non sapevo nulla.
Poi lo stesso giorno mi chiama l’Asl e non i sanitari dove sono ricoverata. “Signora – mi dicono – lei è positiva”. Mi fanno una serie di domande. Siamo al paradosso. Sono confusa, vorrei delle risposte, vorrei capire cosa fare ma soprattutto cosa mi sta accadendo. Tutto questo accade nel reparto di malattie infettive. La mattina seguente mi vengono somministrate delle pillole, a quel punto, chiedo cosa sono. I sanitari fanno un cenno come per dire le prenda. La mia paura cresce di ora in ora. Sola e senza speranze, uso internet per vedere cosa mi è stato somministrato. Scopro che sono degli antivirali, deduco che sono affetta da CORONAVIRUS. Chiedo di essere visitata ma nessuno mi presta attenzione.
Minaccio di chiamare i Carabinieri e a quel punto il primario del reparto, una donna viene in camera e mi dice che la situazione è stabile, senza neanche visitarmi. Arriviamo al 26 marzo, ripeto il tampone. Chiedo gli esisti. Nessuno sa nulla. Poi chiedo a un’infermiera, la quale mi dice: “Se è negativo te ne vai a…”. Immaginate cosa ho dovuto subire. Per fortuna riesco a farmi fare una tac, l’esito è negativo. Così decidono di dimettermi. Siamo al primo aprile. Mi preparo, avviso la mia famiglia. Alle 13.30 arriva un medico e mi dice: “Signora, non può andarsene, abbiamo un problema con un’autoambulanza”. Arriviamo così al 2 aprile, arriva un dottore che mi spiega che se accetto di andare a casa, dove possiedo diversi appartamenti, avrebbero dovuto blindare tutto il palazzo. A quel punto mi propongono il ricovero in una clinica privata. Accetto.
Sono ricoverata da 15 giorni ma il calvario non finisce. Devo fare i tamponi, ma del personale Asl nessuna traccia. Chiedo e nessuno sa dirmi nulla. A quel punto decido di chiamare personalmente l’Asl. Il responsabile mi risponde che non può mandare tre persone per un solo tampone. La clinica deve fornire l’elenco. Non mi arrendo, chiamo il dottore della clinica, il quale mi dice: “Noi abbiamo inviato TRE PEC. A questo punto chiami i Carabinieri”. In tutto questo aggiungo che il giorno 8 aprile è stato effettuato un tampone qui alla clinica ad un altro paziente. Sapete cosa mi ha risposto il responsabile asl? “Signora, evidentemente è qualcuno più forte di lei e di me”! Giudicate voi. Io voglio solo tornare a casa, alla mia vita.
E come darle torto!