Fausto Maria Greco, “La memoria dei salvati”
12 Novembre 2020Covid-19: Scuola ed Università. Un tema di perturbante attualità, atteso che tra i maggiori “diffusori” del virus, in questo tempo, ci sono i giovani. La sofferta decisione di riaprire Scuole ed Università ha esposto a rischio dirigenti, personale scolastico e gli stessi studenti. La misurazione della temperatura, l’eventuale divisione tra frequenza in presenza e frequenza da casa in DAD, la tempestiva sanificazione (una volta individuato un caso), rappresentano in modo palese la mancanza di serenità nello svolgimento delle attività scolastiche.
Trattiamo questo tema con un docente impegnato sia nella scuola secondaria di secondo grado che nella ricerca scientifica. Fausto Maria Greco, nato a Napoli e cresciuto a Caserta, è dottore di ricerca in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e docente di materie letterarie nei licei. Si è occupato della figura del tiranno, dei temi della migrazione e della disabilità nella narrativa contemporanea, di letteratura per l’infanzia. Ha appena pubblicato il saggio La memoria dei salvati, Elie Wiesel e Primo Levi di fronte agli oppressori (Carocci editore, 2020).
Come ha vissuto Fausto Maria Greco la pandemia da Covid-19 e la lunga indispensabile clausura?
Durante il confinamento della scorsa primavera, la preoccupazione principale è stata quella di accompagnare, sostenere e, per quanto possibile, rassicurare i nostri studenti. Dico “nostri” non soltanto perché la programmazione delle attività, alle medie come alle superiori, avviene di concerto con il Consiglio di classe e con gli Organi collegiali, ma anche perché la scuola è una comunità educante nella quale i “solisti” spesso stonano. In tal senso, mi confortava la determinazione comune a molti colleghi di continuare, anche nell’insolito ambiente della didattica a distanza, la pratica di ascolto degli studenti, dei loro bisogni, interessi, esigenze. L’urgenza di nominare il disagio che vivevano, di dare ad esso una voce, veniva prima di ogni altra abilità o competenza da sviluppare, soprattutto in un momento come quello che abbiamo vissuto: letteralmente scomparsi dal discorso pubblico, spesso trattati alla stregua di untori (vi ricordate la reazione di alcuni politici quando il Presidente del Consiglio Conte osservò, con buon senso durante una conferenza stampa, che il genitore che si fosse recato al supermercato poteva portare con sé il figlio minorenne?), i giovani e i giovanissimi hanno rischiato, tra la fine di febbraio e quella di giugno 2020, di essere persi di vista anche dalla scuola, sepolti anche in quel frangente sotto la mole di documenti di riprogrammazione, aggiornamenti su tecnologie informatiche e incombenze burocratiche che costituiscono una preoccupazione rilevante della scuola italiana. Si rischiava, allora, di non riuscire a lavorare per la crescita umana e culturale degli studenti. I dati che abbiamo oggi a disposizione dicono che un numero troppo alto di alunni non è stato sufficientemente coinvolto nella didattica a distanza e che il virus ha accentuato disuguaglianze sociali già molto gravi, ma resta comunque impressionante la capacità che il sistema pubblico di istruzione ha dimostrato nel rispondere con tempestività alla più grande emergenza degli ultimi settanta anni.
Meglio la didattica a distanza o le lezioni in presenza con le opportune precauzioni?
Dubito ci siano insegnanti di scuola o di università che preferiscono la didattica a distanza. Nessun sapere viene elaborato e appreso meglio se professori e studenti sono fisicamente lontani. Credo che i docenti italiani lo sappiano bene: esperienze di formazione a distanza appartengono, da oltre una decina d’anni, a molti di quelli che sono attualmente in servizio. Chi, come me, è stato precario per diverso tempo e chi lo è tuttora ha provato ad accumulare punteggio nelle graduatorie scolastiche non soltanto con le supplenze e con gli incarichi temporanei, ma anche conseguendo titoli culturali, spesso frequentando corsi on line in modalità di formazione a distanza. Basta scorrere l’offerta degli enti più noti e dei consorzi a cui le Università pubbliche hanno dato vita per accorgersi di quanto il settore sia redditizio e in crescita: prime e seconde lauree per funzionari e dipendenti pubblici, master, corsi di specializzazione e di perfezionamento per professionisti d’ogni sorta vengono offerti tenendo conto di tutte le tasche e di tutte le esigenze. Eppure quel modello di formazione a distanza è il più sterile che si possa immaginare: dispense da leggere oppure video-lezioni registrate dai docenti, da fruire in differita e in totale isolamento per poi svolgere dei questionari intermedi ed eventualmente, in conclusione, scrivere una debolissima “tesi” di fine corso. Queste esperienze ci hanno dimostrato, ben prima della didattica di emergenza del marzo di quest’anno, che il sapere acquisito in tal modo non è discusso né problematizzato né costruito collettivamente, che esso non è accompagnato quasi mai dalle emozioni necessarie a fissarlo nella mente per lungo tempo e che viene semplicemente calato dall’alto, in una dimensione fortemente gerarchica (un pericolo sempre incombente, come ha osservato la collega Marilisa Moccia su “Napoli Monitor”, https://napolimonitor.it/distanti-da-scuola/).
Se però in condizioni ordinarie la didattica a distanza non offre alcun vantaggio rispetto alla possibilità di condividere la medesima aula con i propri studenti, la situazione che abbiamo vissuto fin dall’inizio del mese di settembre e che ora si è aggravata non ha nulla di ordinario. I contagi sono cresciuti già durante l’estate e gli assembramenti sui mezzi pubblici e all’esterno degli istituti scolastici hanno fatto capire immediatamente che la scuola non sarebbe rimasta estranea all’emergenza epidemiologica che montava nel Paese. D’altra parte, proprio nelle ultime settimane autorevoli scienziati ci hanno spiegato in maniera quanto mai efficace le dinamiche del contagio, soprattutto nei luoghi chiusi e affollati, con o senza l’uso di mascherine: la scuola non fa eccezione, nonostante l’adozione di un protocollo ministeriale e di ulteriori misure locali (su distanziamento, misurazione della temperatura corporea, ingresso contingentato degli studenti, gestione delle classi, delle assenze e dei rientri, sanificazione delle aule e delle suppellettili). Almeno per l’istruzione superiore e per l’università, il passaggio alla didattica a distanza è stato inevitabile. Se trascurabili, a giudizio della Ministra Azzolina, sono i contagi avvenuti all’interno delle aule (cifre da riferire sempre a dieci o quindici giorni prima della chiusura, visti i tempi delle diagnosi), nient’affatto trascurabili sono stati, in meno di un mese di lezioni in presenza, i problemi organizzativi: molti istituti avevano già intere classi o sezioni con i rispettivi docenti in quarantena o in isolamento e occorreva procedere a sempre più frequenti chiusure e sanificazioni.
In settimane in cui è davvero difficile mantenere un ordine mentale e una progettualità, in molti di noi prevale il rammarico per il ritorno a una didattica fatta di tastiere e di schermi, di distanza fisica e di corpi isolati, confinati in casa per buona parte del tempo. Un dolore condivisibile, dettato da una considerazione della scuola come comunità viva e concreta, dall’attenzione ai più fragili e bisognosi tra i nostri studenti. Eppure il senso della realtà e un sano rispetto di noi stessi e dei nostri alunni ci avrebbero dovuto spingere a far sentire la nostra voce ben prima che un’ordinanza regionale e ora gli ultimi decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri disponessero il ritorno alla didattica a distanza. Da tempo le scuole hanno un estremo bisogno di nuovi spazi, unico vero antidoto al sovraffollamento delle aule. In vent’anni abbiamo accettato che all’istruzione si sottraessero miliardi di euro: si può davvero porre rimedio in due o tre mesi? Molto più dei banchi a rotelle, occorre tempestività nell’assegnazione delle cattedre e nella manutenzione ordinaria e straordinaria delle strutture da parte degli enti locali. Con lucidità, su alcuni di questi punti si sono espressi i dirigenti scolastici campani in una lettera aperta alla ministra (https://www.napolitoday.it/cronaca/scuola-presidi-azzolina-coronavirus.html). Mi risulta inoltre che la didattica mista, che consentirebbe di riempire per metà le aule scolastiche e che in alcuni istituti è stata possibile fin da settembre, non sia ovunque praticabile per carenze della strumentazione tecnica e delle reti telematiche. Tutte criticità, insieme a quelle che riguardano il tracciamento e la diagnosi dei casi di contagio da coronavirus, che è necessario affrontare prima di programmare un rientro nelle aule in sicurezza e in efficacia, in particolare per le scuole medie e superiori. Per il momento, la sfida è provare a essere utile agli studenti dallo schermo di un computer: a partire dall’accoglienza di un sorriso che altrove possiamo soltanto intuire sui nostri volti, sotto le mascherine.
La memoria individuale dei superstiti, dei sopravvissuti all’Olocausto non deve mai essere relegata nell’oblio, ma deve essere tutelata, affidata alla memoria collettiva e alle generazioni future, affinché si riconoscano gli aguzzini, i carnefici, gli oppressori. Secondo Lei, la testimonianza è un processo di elaborazione del lutto circa la propria dignità e del vissuto di vergogna, disinganno, paura? Ritiene che questo patrimonio collettivo sia il senso del suo libro?
Mi viene in mente che riconoscere e interrogare gli aguzzini, gli oppressori, è stata una delle esigenze fondamentali della scrittura di Elie Wiesel, uno dei due autori (l’altro è Primo Levi) che ho analizzato ne La memoria dei salvati, frutto di una ricerca durata sei anni. Nato nella città romena di Sighet, in Transilvania, poco prima che questa regione venisse annessa all’Ungheria, Wiesel è stato deportato ad Auschwitz insieme alla sua famiglia quando aveva appena quattordici anni: l’esperienza di prigionia è narrata ne La notte, una delle più famose e appassionate testimonianze sui lager nazisti. Il testo è stato redatto rapidamente nel 1954, pubblicato nel ’56 in Argentina e poi rimaneggiato per l’edizione in francese del ’58 a Parigi. Significativamente, la prima versione era scritta in yiddish, a simboleggiare una doppia morte: quella di una lingua e quella del popolo che la parlava (appunto le comunità ebraiche dell’Europa dell’est).
Wiesel, che in seguito avrebbe ricevuto per il suo impegno civile il premio Nobel per la Pace e raggiunto un’incredibile notorietà in tutto il mondo, apparteneva dunque a una delle comunità che sono state letteralmente cancellate dalla Shoah. Molti personaggi dei suoi libri, in genere ex deportati o figli dei sopravvissuti allo sterminio nazista, tornano nei luoghi d’origine in cerca della propria comunità scomparsa e di un confronto risolutivo con i vecchi aguzzini tedeschi, con i loro complici di nazionalità ungherese oppure con gli spettatori indifferenti che hanno osservato a distanza la deportazione e la strage degli ebrei. Ebbene, nei romanzi e nei racconti di Wiesel si tratta sempre di un confronto deludente: l’odio si esaurisce, la vendetta non si realizza, le vere risposte alle domande degli ex deportati non vengono date. Si scopre, addirittura, che la memoria può diventare un’ossessione, che non si può vivere contemporaneamente nel passato e nel presente: una certa misura di oblio è indispensabile per nutrire nuovamente una speranza nei confronti della vita. Ma se dal piano individuale guardiamo a quello collettivo, non c’è dubbio che Wiesel, al pari di Primo Levi, abbia dato un grande contributo alla stagione di lotta all’oblio – nel senso più generale di dimenticanza, di autoassoluzione, anche di giustificazione rispetto al passato nazista e fascista dell’Europa – che si è aperta all’indomani del processo al criminale nazista Adolf Eichmann, celebrato in Israele all’inizio degli anni Sessanta. A partire da quel processo, che ha ispirato La banalità del male di Hannah Arendt e che per la prima volta nel dopoguerra ha dato voce ai sopravvissuti, l’espressione del ricordo ha assunto un peso che travalica l’esperienza individuale. Si è generata una domanda sociale di testimonianze che dura ancora ai nostri giorni. Grazie soprattutto allo sforzo di Wiesel e di Levi, i sopravvissuti sono considerati finalmente persone rispettabili: anzi, la lettura dei loro testi è riuscita a suscitare, in altri superstiti dei lager, la determinazione a raccontare e a coltivare una forma di liberazione che allontanasse dalla memoria il giudizio, la vergogna, il senso di colpa. Sì, può sembrare assurdo, ma la domanda che anima molti sopravvissuti è: “Perché sono sopravvissuto mentre tanti altri sono morti?”. È una domanda che Levi e Wiesel hanno saputo interpretare e incarnare in alcuni dei loro personaggi.
Il senso di colpa è centrale soprattutto nella vicenda da cui prende avvio il mio saggio: su un autobus, a Tel Aviv, un ex deportato incontra il suo vecchio kapò che nel lager di Auschwitz lo ha tormentato. Ora, finalmente, il sopravvissuto potrebbe avere una rivincita, una vendetta. Accade invece che il rovesciamento dei ruoli, tra vittima e carnefice, sia impossibile: è l’esito di Una vecchia conoscenza, racconto che Wiesel ha inserito nella raccolta de L’ebreo errante, del 1966. Anche Primo Levi, in un racconto de Il sistema periodico (1975), narra di un dialogo instaurato nel dopoguerra, in forma di carteggio, con un funzionario tedesco conosciuto in lager. Ho provato a confrontare i due testi e a misurare così la distanza tra i due autori che sono ancora, probabilmente, i principali mediatori del discorso sulla Shoah nel mondo.
Se l’oblio porta all’indifferenza, la testimonianza s’inabita di speranza e di verità. Da docente, come trasmette ai suoi studenti tale obbligo morale, che va insegnato, ma soprattutto condiviso e compartecipato?
Generalmente gli studenti, sia delle scuole medie che delle superiori e dei corsi universitari e specialistici, sono molto curiosi di approfondire il periodo della nostra storia che è stato caratterizzato dai totalitarismi. Della persecuzione nazista credo li stupisca soprattutto la perversione del linguaggio e la considerazione, stimolata dalla lettura attenta delle testimonianze, dei documenti storici e anche dei testi letterari, per cui i lager sono stati una diretta emanazione della politica di potenza e di eugenetica del nazismo: luoghi di violenza, di segregazione e di sofferenza, ma anche di indifferenza. Lì, infatti, il meccanismo della morte industriale di milioni di persone si fondava sulla distanza tra la vittima e il carnefice. Non a caso, dopo la strage, le camere a gas venivano aperte da altri prigionieri mentre i guardiani, cioè i veri oppressori, potevano allontanare lo sguardo dalla dura verità del campo.
Per approfondire e comunicare efficacemente su questi temi è quanto mai utile, oltre allo studio individuale, confrontarsi con altri ricercatori e colleghi. Sui temi della memoria e sulla didattica relativa alla Shoah, alle esperienze delle deportazioni e degli stermini del Novecento c’è una buona offerta di seminari e corsi di aggiornamento rivolti ai docenti di ogni ordine e grado: segnalo le iniziative dell’Istituto Parri, promotore degli annuali “Cantieri della memoria”, quelle della Fondazione Valenzi a Napoli e quelle promosse da Laura Fontana in Italia e in Europa, in particolare a Parigi dove ogni anno il Memorial de la Shoah offre un corso intensivo di formazione sulla storia dello sterminio nazista a venti insegnanti, in rappresentanza di ciascuna regione italiana. Quel che si osserva, però, nelle più recenti occasioni di discussione tra addetti ai lavori, educatori, storici e studiosi di letteratura e delle varie arti, è la sempre più diffusa convinzione che le iniziative messe in campo dall’istituzione del Giorno della Memoria in poi non siano bastate. Il ritorno dell’antisemitismo, del razzismo, della discriminazione su base etnica e religiosa è un problema inquietante che spinge a interrogarci anche sul modo in cui è stata raccontata e si racconta tuttora la tragedia delle persecuzioni antisemite e dello sterminio nazista. Non bastano gli scritti di Primo Levi e di decine di altri testimoni: la memoria si rinnova continuamente e produce nuove narrazioni. Un ruolo decisivo, finora, è stato assunto dalle testimonianze dei sopravvissuti, mentre oggi la centralità spetta ai “giusti”, alle storie anche controverse di Perlasca, Palatucci, Bartali, che hanno attirato l’attenzione nel contesto italiano. Restano ancora in ombra, invece, i carnefici: se la legge istitutiva della Giornata della Memoria ha come obiettivo lo studio, non basta commemorare il trasporto degli ebrei italiani nei lager, ma occorre guardare in senso critico alla nostra storia, rintracciare e indagare le premesse che hanno consentito l’origine, lo sviluppo e la diffusione dell’antisemitismo nella specificità italiana.
L’esempio di Primo Levi è molto utile: il suo ultimo saggio, I sommersi e i salvati, aveva lo scopo di promuovere nelle nuove generazioni un legame non stereotipato con l’esperienza di Auschwitz. L’adozione di un linguaggio narrativo gli serviva per ravvivare l’immaginazione morale e storica, come ha osservato Martina Mengoni. E per allargare lo sguardo, mi permetto di aggiungere: ricordate lo sdegno che accompagnò qualche anno fa il “selfie” scattato da alcune ragazze all’interno del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, a Berlino? Fin troppo facile puntare il dito contro di loro. Una riflessione di Guido Mazzoni, pubblicata in Rete e nel suo saggio su I destini generali (Laterza, Roma-Bari, 2015), ricordò allora a tutti che gli enormi cartelli e i messaggi pubblicitari che si trovano nei pressi dell’ingresso e lungo l’intero perimetro del memoriale già smentiscono la solennità del luogo, sovrapponendogli i luoghi comuni del consumismo e della mercificazione, di cui i social network (e i selfie) sono solo i più recenti veicoli.
L’osservazione di Mazzoni sarebbe stata impossibile senza allargare la prospettiva, appunto, oltre la stretta inquadratura di quel selfie. Di fronte all’obbligo della memoria, di cui oggi si chiede conto soltanto alla scuola e a poche altre istituzioni educative, non possiamo che compiere la stessa operazione di Mazzoni: allargare lo sguardo. La memoria e lo studio del passato sono un dovere per l’intera società, allo stesso modo che affermare una cultura di vita e non di morte, lottare contro pregiudizi e privilegi, chiedere il riconoscimento dei diritti di tutti, a partire dalle minoranze e da ogni forma di diversità.