Il capitalismo selvaggio è lontano dal Vangelo
8 Maggio 2020Azione Cattolica diocesana, ad Antivirus un approfondimento di don Matteo Prodi sulla lettera pasquale del vescovo Mimmo: “Anche in questa epidemia siamo chiamati a capire cosa vuole dirci il Vangelo.
“Dobbiamo trovare tutti i modi per far sì che il Vangelo risuoni anche nelle situazioni, nei posti, nelle occasioni in cui noi non lo porteremo mai. Tutti facciamo una grande fatica a pensare cosa voglia dirci il Vangelo in questo momento. Però, appunto, anche nell’epidemia noi possiamo e dobbiamo trovare parole che risuonino come rinnovamento, come ritorno alla vita, come sconfitta della morte come sconfitta del limite dell’uomo”. È una premessa doverosa e sentita, necessaria e accorata, quella di don Matteo Prodi, direttore Scuola d’Impegno Socio-Politico della Diocesi, intervenuto nella seconda puntata di “Antivirus – Abitare questo tempo in piedi”, il format di approfondimento dell’Azione Cattolica diocesana. Il tema di partenza era una riflessione sulla lettera del vescovo diocesano don Mimmo Battaglia “Il mistero pasquale: mistero di morte e di resurrezione anche nell’epidemia”, ripresa anche dal quotidiano Avvenire. “Già il titolo della lettera è molto significativo. Non esiste qualcosa che possa essere fuori da un Dio che guida la storia verso il suo fine di salvezza. È proprio nel presente, in ogni presente che viviamo, che si gioca la nostra vita perché il fine a cui arriverà la storia è tesa all’incontro con il Signore. Anche in questo tempo di Coronavirus si manifesta la vittoria della Pasqua”.
Tre i riferimenti biblici presi dal nostro vescovo per denunciare un capitalismo selvaggio e discriminatorio e per indicare una direzione possibile: i tre giovani che non si prostrano alla statua d’oro di Re Nabucodonosor che vengono gettati nella fornace ardente e poi tratti in salvo dal Signore, la profezia di Simeone che tiene in braccio Gesù di fronte a Maria e Giuseppe e la morte a Roma di Pietro e Paolo. Collaboratore presso l’Università di Bologna per il Seminario sull’Etica d’impresa e docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale sezione “San Luigi” di Napoli, don Matteo comincia dai falsi dei, evidenziati anche don Mimmo nella sua lettera. “Un esempio di fede radicale, la vicenda dei tre giovani nel libro del profeta Daniele, su come anche noi siamo poco abituati a vedere e ad uscire da questo rapporto dare-avere con Dio.
C’è, invece, bisogno anche di vivere un rapporto conflittuale tra noi e Dio. La fede vera consiste, soprattutto, in un grosso scontro perché la vita, ogni tanto, è molto diversa dalle nostre attese e da come noi ce la siamo immaginata. Abbiamo, quindi, la necessità di purificare la nostra immagine di Dio perché rischiamo tutti di essere un po’ idolatri. Gli idoli – spiega don Matteo Prodi – hanno la capacità di essere al servizio dei potenti e di distruggere stesso coloro che li hanno creati. Il primo di questi è il capitalismo finanziario senza regole. Esso, insieme agli stessi Stati, senza dubbio, è diventato col tempo lo spazio principale di dominio sulle persone e il detentore assoluto della vita delle persone. È un concetto di libertà usata male. Se ci pensate, di massima, i capitalisti selvaggi e le grandi lobby, così come gli Stati nazionali, tendenzialmente non infrangono le leggi vigenti. Ma non le infrangono in quanto convincono Parlamenti e legislatori a farsi le regole a loro uso e consumo. Perché negli Stati Uniti, per esempio, a fronte di episodi assurdi sull’uso di armi, non è mai stata realizzata una serie legge che regoli l’acquisto, la vendita e la detenzione di armi? Perché la lobby dei produttori di armi fa in modo che queste regole non vengano introdotte. È vero che c’è un capitalismo senza regole, ma è vero anche che il capitalismo sa anche crearsi le proprie regole. Consiste in questo l’utilizzo distorto della libertà.
E chi ne paga le spese maggiori, sono sempre i cittadini più indifesi e deboli che non hanno voce”. E quando non c’è una linea precisa nella direzione della libertà, della fraternità e dell’uguaglianza, quando non ci sono controlli o quando non avviene il rispetto delle regole, tali valori possono essere completamente distorti. “Dovrebbe essere assolutamente chiaro – evidenzia don Matteo – che libertà non è che posso fare quello che voglio io con quello che è a mia disposizione, senza curarmi delle conseguenze. Non dovrebbe essere così. E’ questo l’anello che manca in questo momento nell’attuale società. È questo che ha prodotto l’attuale mondo nel quale viviamo. La libertà dovrebbe essere usata sempre per il fine di bene comune, di felicità e di umanizzazione”. Le maschere che vengono di volta in volta indossate, poi, producono ulteriori dolori e sofferenze. “Far cadere le maschere che s’indossano è un’urgenza imprescindibile. Soltanto se noi ci lasciamo veramente toccare dalle realtà dolorose, queste maschere possono crollare e fare verità sulla nostra esistenza. La questione di un Gesù presentato come colui che toglie le maschere è interessantissima. Solo le situazioni difficili e poco agevoli mettono in luce quello che veramente abbiamo nel cuore, mettono a nudo quello che noi siamo perché ci riportano al vero essenziale, a quello che conta. La sofferenza dell’altro, interiorizzata, può consentirci di fare verità dentro noi stessi e trovare anche il modo per contribuire alla vita di tutti. Un passo della “Laudato Si”, su questo tema, mi è molto caro: noi dobbiamo avere il coraggio di trasformare in sofferenza personale quello che accade nel mondo in modo da trovare il contributo che possiamo offrire. Quello che avviene fuori dalle quattro mura delle chiese è il nutrimento e il luogo che fa crescere la Chiesa.
Se la Chiesa guarda il fuori da dentro e resta chiusa in sé stessa, è finita. Non a caso, come immagine della resurrezione, il sepolcro al suo interno era vuoto. E dal sepolcro ci si è spostati da altre parti ad annunciare la buona notizia”. Le indicazioni della presenza di Dio nella nostra vita sono tante, ma come riconoscerle? Il sacerdote bolognese le riassume in due punti. “Il primo: essere radicalmente profeti. Il profeta è una persona talmente dentro la storia che addirittura Dio gliene fa partecipe rivelandogli la sua esistenza. Essere profeti vuol dire proprio essere dentro la realtà che si abita fino alle midolla. La Chiesa deve amare con tutta sé stessa il mondo e deve essere inserita nel mondo perché soltanto nel mondo trova la possibilità di recuperare il senso della sua esistenza.
Il secondo aspetto importantissimo: la Parola di Dio, mettersi in ascolto della sua Parola. Poiché il credente deve abitare la propria realtà alla luce del Vangelo, si diceva una volta che il buon cristiano deve avere in una mano il giornale quotidiano e nell’altra una Bibbia. È per questo che la lettera del vescovo è molto istruttiva come metodo. Le indicazioni che possiamo avere, per l’oggi, nella nostra vita nascono da questo doppio radicamento: nella storia e nella parola del Signore che riconosce quello che c’è nella storia, sapendo rivelare e svelandoci il volto perverso e idolatra dei vari poteri.
Non può esserci qualcosa che possa essere fuori da un Dio che guida la storia verso il suo fine di salvezza. È nel presente che si gioca la nostra vita. E deve essere una vita lontana dai poteri. Soltanto quando noi sappiamo, come credenti, denunciare e non adorare il potere, potremo dare una vera testimonianza. E va detto che, come testimonianza cristiana nella politica, non siamo stati abbastanza lontani e distaccati dai poteri. Questa, in Italia, è sicuramente una ferita che speriamo possa guarire presto”. Don Matteo ha ricordato, infine, che “ogni cosa che accade, e ci accade, ci avvicina di più al fine dell’amore di Dio. Perché è importante che noi ricordiamo che non c’è situazione umana che sia fuori dalla custodia amante di Dio. Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”.