L’effetto del lockdown sui diversamente abili (I parte)

L’effetto del lockdown sui diversamente abili (I parte)

22 Giugno 2020 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

La distanza sociale ha bloccato la normale già deficitaria assistenza, arrecando gravissimi danni alle famiglie, costrette ad affrontare da sole il sostegno dei loro cari.

 

La disabilità, in tutte le sue espressività, è misconosciuta, ipovalutata da una società iperfocalizzata solo sull’apparenza, sull’immagine, sul corpo più che sui valori fondanti e costitutivi una visione della realtà solidale, empatica, eticamente responsabile, equa nei diritti di uguaglianza.

Durante la fase critica della pandemia da Covid19 i diversamente abili hanno sofferto molto più di tutti gli altri lo stato di cattività. La distanza sociale ha bloccato la normale già deficitaria assistenza, arrecando gravissimi danni alle famiglie, costrette ad affrontare da sole il sostegno dei loro cari.

Parliamo di queste problematiche con due valenti interlocutori, che in diverso modo si occupano di disabilità: la professoressa Daniela Pavoncello, Psicologa e Docente Universitaria ed il professor Luigi Croce, Psichiatra e Docente Universitario

Professor Croce, cosa ha significato per tutti i pazienti con disturbi mentali e le loro famiglie questo lungo periodo di lockdown?

La prima considerazione emersa dall’esperienza riguarda la percezione del vissuto di abbandono e solitudine. L’informazione confusa e contraddittoria dei primi momenti di pandemia, continuate e sostanzialmente complicata dal susseguirsi di ordinanze, decreti e ridondanza di opinioni di esperti tuttologi nel proseguo, ha progressivamente destabilizzato le persone con disabilità mentali, i loro familiari e gli operatori dei servizi. Lo smarrimento, il timore, il senso di incertezza, l’imprevedibilità hanno contribuito ad abbassare lo soglia di vulnerabilità alla sofferenza e al disagio mentale. La dinamica nell’evoluzione dello scompenso psicopatologico e frequentemente comportamentale non è stata univoca e uguale per tutte le situazioni, ma ha considerato l’impatto di fattori di rischio e di protezione e tutela personali, familiari e della comunità di appartenenza. Dove la cultura dei valori familiari, la robustezza di una storia di solidarietà fattiva pregressa, la vicinanza emotiva sostenuta nel tempo al di là dello spazio, la presenza di supporti materiali e di opportunità di accesso ai servizi di emergenza si sono rivelate disponibili il meccanismo della resilienza si è di fatto innescato.

La “trappola” del lockdown non è stata caratterizzata semplicemente dai limiti del luogo di isolamento, ma è diventata per molti, non solo per le persone con disturbi psichiatrici, l’esperimento esistenziale del viaggio dentro sé stessi a confronto con i propri limiti e barriere. La porta di casa ha costretto molte persone a sognare, rappresentarsi, ricordare e non più vivere “il fuori”, per accorgersi con maggiore intensità del “dentro”, nei luoghi fisici e relazionali della quarantena. La casa, in certi casi, è diventata la cassa di risonanza della sofferenza, soprattutto quando abbandono forzato e solitudine hanno amplificato necessariamente l’eco del dolore, destrutturato il ritmo rassicurante delle abitudini, evocato a volte i fantasmi del delirio e delle allucinazioni, sicuramente più percepibili se non addirittura roboanti nel silenzio della marginalità necessaria. Molto frequentemente è mancato il sostegno terapeutico delle relazioni che per chi vive il dramma della depressione ad esempio, costituisce conforto e cura necessaria. Si consideri il valore della corporeità come componente fondamentale di ogni relazione di aiuto, solo in parte vicariabile dalla dimensionalità “piatta” delle videochiamate e delle videoconferenze.

Durante il periodo del lockdown, per molte persone con problemi mentali la terapia e la riabilitazione sono state di fatto sospeea, con l’allegato ansiogeno del “a data da destinarsi” e il riscontro di un aggravamento della sofferenza mentale e dello scompenso comportamentale. L’aumento della criticità di alcune situazioni ha comunque generato la risposta dei servizi psichiatrici, soprattutto a livello pubblico, che hanno garantito il confronto con l’emergenza senza il dovuto e legittimamente riconoscimento attribuito alla “prima linea” degli operatori nella rianimazioni, nei pronto soccorso e nei reparti Covid degli ospedali o tra i medici di famiglia. All’emergenza sanitaria in senso stretto, si sta affiancando, dopo un periodo di latenza, una emergenza psichiatrica e psicologica, con la tendenza a svilupparsi come “onda lunga”, conseguenza sulla salute mentale degli effetti clinici, umani, economici e psicosociali della pandemia. Sul piano scientifico clinici e ricercatori stanno individuando criteri ed indicatori per “misurare” l’impatto della malattia e della quarantena sulla salute mentale dei cittadini, con e senza disturbi psichiatrici pregressi, le variazioni nel consumo di psicofarmaci, i ricoveri nei reparti di diagnosi e cura psichiatrici, l’efficacia degli interventi di emergenza attuati, le modificazioni transitorie e stabili nel funzionamento personale, familiare e degli operatori coinvolti nell’assistenza psichiatrica, la pianificazione e la programmazioni di strategie di prevenzione e di riavvio delle pratiche terapeutiche, educative e riabilitative nei servizi e nel territorio, alla luce di una comunità e di un mondo che semplicemente non può ritornare allo status quo ante, ma necessita di una prospettiva nuova e diversa anche in termini organizzativi.

Vorrei inoltre sottolineare come l’isolamento e le restrizioni alla mobilità abbiano avuto un impatto significativo sui familiari delle persone con sindromi psichiatriche; di fatto il carico familiare in genere correlato con ogni situazione di malessere mentale è drammaticamente aumentato in questo periodo determinando il rischio di compromettere definitivamente la disponibilità della famiglia come risorsa. Lo abbiamo rilevato con le famiglie delle persone con sindromi mentali gravi, la schizofrenia, le depressioni, i disturbi bipolari, i disturbi di personalità e i deterioramenti cognitivi come le demenze, senza dimenticare per sofferenza e gravità la galassia delle disabilità intellettive e l’autismo. Anche disturbi apparentemente meno gravi, come le sindromi ansiose, i quadri ossessivi e i disturbi di somatizzazione, incontrando lo stress indotto dai fattori connessi alla pandemia sono frequentemente evoluti con prognosi più sfavorevoli e con maggiori necessità di cura e sostegno.

La radicalizzazione dei sintomi e dei comportamenti disfunzionali non sembra per altro seguire l’andamento clinico prognosticamente favorevole dell’epidemia, ma appare arricchire la gamma delle patologie post quarantena, come la già famigerata “sindrome della capanna”, in altre parole la riluttanza a riprendere la vita prima della quarantena, incapaci di recuperare dalla fatica delle incombenze, obblighi, responsabilità della vita sociale, lavorativa, civile. Le nuove procedure di prevenzione per fare una spesa, andare in banca o in posta, divertirsi, muoversi, interagire servendosi obbligatoriamente per via elettronica, producono sgomento, senso di impotenza e di inutilità, sentimenti di inadeguatezza, paura di essere sovrastati generano il desiderio di rifugiarsi nell’ambiente sicuro e deresponsabilizzante del proprio domicilio, in modo particolare quando vi si associa il timore morboso di essere contagiati.

In sintesi è necessario riconoscere il persistere di una epidemia parallela e silente, rappresentata dagli effetti del contagio e del lockdown su una popolazione più vulnerabile ai contesti di vita più sfavorevoli come le persone con problemi mentali. Il sostegno a queste persone, alle loro famiglie e agli operatori che se ne prendono cura non appare compito meno arduo e necessario di quanto non già accade per la salute fisica e mentale di tutti. Non accorgersene reintrodurrebbe drammaticamente lo stigma della follia tra i disvalori della nostro società. (Continua)