Long Covid, il rischio cambia a seconda della variante
10 Marzo 2023Il Long Covid è “molto meno probabile” dopo avere contratto un’infezione da variante Omicron di Sars-CoV-2, che dopo un contagio da coronavirus pandemico nella sua versione originale. È la conclusione di uno studio svizzero condotto su oltre mille operatori sanitari, che sarà presentato al Congresso della Società europea di microbiologia clinica e malattie infettive (Eccmid 2023, 15-18 aprile,Copenaghen – Danimarca) da Carol Strahm, della Divisione di Malattie infettive ed Epidemiologia ospedaliera dell’Ospedale cantonale di San Gallo.
La ricerca ha coinvolto 1.201 operatori di 9 network sanitari elvetici, per l’81% donne, di età media 43 anni, reclutati fra giugno e settembre 2020. L’obiettivo degli autori era valutare i tassi di sequele post-Covid nei ‘camici’ infettati da virus Sars-CoV-2 di tipo ‘wild’, dalla prima variante Omicron (BA.1) o da entrambi, rispetto a controlli non contagiati. I partecipanti sono stati sottoposti regolarmente a test Covid-19 (tamponi nasofaringei e test anticorpali), hanno fornito informazioni sul proprio stato vaccinale e hanno risposto a tre riprese – nel marzo 2021, nel settembre 2021 e nel giugno 2022 – a questionari online che indagavano su 18 sintomi di Long Covid e sui livelli di affaticamento. I disturbi persistenti riferiti più spesso includevano perdita di olfatto/gusto, stanchezza/debolezza, burnout/esaurimento, perdita di capelli.
In sintesi, Strahm e colleghi hanno osservato che gli operatori sanitari infettati dalla prima versione di Sars-CoV-2 avevano una probabilità di Long Covid fino al 67% maggiore rispetto a quelli non contagiati; un rischio aumentato che nel tempo scendeva al +37%. Tra gli infettati da virus wild, la maggior probabilità di fatigue rispetto ai non contagiati era del 45% maggiore all’inizio, per poi calare fino a raggiungere una differenza non statisticamente significativa. Per quanto riguarda invece i guariti da Omicron, rispetto ai non infettati non mostravano un rischio aumentato né di Long Covid né di affaticamento. Si è visto inoltre che reinfettarsi con Omicron dopo un precedente contagio da virus originale non comportava una probabilità maggiore di Long Covid, rispetto a una singola infezione da virus wild.
“Long Covid è un problema di salute pubblica significativo, con uno stato di malattia prolungato e a volte debilitante, opzioni terapeutiche limitate ed esito incerto”, spiega Strahm. Siccome “la maggior parte dei dati” disponibili sulle sequele post-infezione “provengono da persone che hanno contratto Covid-19 relativamente presto nel corso della pandemia, prima dell’emergere della variante Omicron verso la fine del 2021, con l’avvento di Omicron, il suo dominio globale e la conseguente esplosione di infezioni – precisa la ricercatrice – è fondamentale scoprire di più su chi è a rischio di Long Covid” ora “e perché”.
Riguardo ai dati raccolti, che indicano un minor rischio di disturbi persistenti post-infezione con Omicron, “possiamo solo avanzare delle ipotesi – dice Strahm – Probabilmente”, quanto osservato “è legato a una combinazione tra il fatto che la variante Omicron ha meno probabilità di causare malattia grave rispetto al virus wild-type (sappiamo infatti che il Long Covid è più comune dopo le forme gravi) e l’immunità acquisita attraverso una precedente esposizione al virus, ad esempio un’infezione subclinica senza sieroconversione”.
“Con Omicron ancora dominante a livello globale”, per la scienziata “i nostri risultati dovrebbero rassicurare chi si sta infettando adesso per la prima volta, così come chi ha già contratto l’infezione da virus originale. Tuttavia – puntualizza Strahm – è importante notare che i partecipanti al nostro studio erano soprattutto donne sane, giovani e vaccinate. I risultati potrebbero dunque essere diversi in una popolazione più malata, anziana e/o non vaccinata”.