Luigi Di Fiore: Coronavirus, la peste dei tempi moderni
3 Dicembre 2020Guardare un bel film in una bella sala cinematografica, sgranocchiando patatine e popcorn, divertimento semplice per molti italiani è, purtroppo, un miraggio in questo momento storico contingente. Il Covid-19 ancora imperversa e ci limita sempre di più. Il Cinema, con grandi difficoltà, prova a riprendersi.
Approfondiamo una tematica a noi tanto cara, con Luigi Di Fiore, diplomato alla Bottega Teatrale Vittorio Gassman. Nell’anno successivo diventa attor giovane al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Giorgio Strehler. Interprete di numerose fiction televisive e film di respiro internazionale, pur non abbandonando mai l’attività teatrale. La sua popolarità cresce notevolmente a partire dal 1996, allorquando per cinque anni veste i panni del dottor “Luca De Santis” nella soap opera “Un Posto al Sole“. Partecipa da co-protagonista in diverse fiction, come Amanti e Segreti, Cuore contro Cuore, Distretto di Polizia, Incantesimo, I Cesaroni, il Commissario Nardone, Baciato dal sole, etc… Nell’ottobre 2011 gira, inoltre, alcuni documentari per Geo&Geo. Nel 2009 anno vince il Palmarès, come migliore attore, al Festival du Cinema de Paris con il film “Emilia Galotti” con la regia di Alessandro Berdini.
Come ha affrontato Luigi Di Fiore il primo lungo lockdown e la paura della pandemia?
Il debutto di questo 2020 personalmente è stato quanto di peggio potessi immaginarmi. Il 15 gennaio è morta mia madre e con lei la consapevolezza di non essere più figlio. Poi, in un solo fiato, siamo giunti all’8 di marzo, la festa della donna. Il giorno successivo cominciava il lockdown, termine terrificante che sembrava coprire la fantomatica elegia medievale per descrivere la peste. Preferisco il rischio di apparire prosaico e chiamarla chiusura totale. La prima, per certi versi, incredibile sensazione, è stata quella di sentirsi sospesi come in una bolla, quasi fossimo testimoni di un evento storico di irripetibili compromissioni. Da qui, a mio avviso, è nata quella aperta solidarietà che ci ha fatto cantare dai balconi, applaudire i camici bianchi, che ci sono apparsi come degli eroi sui campi di battaglia della mitologia greca. Poi il senso di smarrimento, misto alla rabbia, per una classe politica che sembrava badare più al tornaconto personale che all’effettiva esigenza di fare il possibile per preservare la vita umana. Uno spettacolo indecente di cui dovranno rispondere in un tribunale prima e nelle urne poi. Tutto il periodo l’ho consumato, essendo un libero professionista, e avendo visto azzerare tutte le possibilità di guadagno, a cercare di eliminare tutte quelle spese non necessarie per ottimizzare al meglio i pochi risparmi messi da parte in un’intera vita. Mi sono, e ci siamo subito resi conto, come categoria, che per noi non era previsto nessun tipo di ammortizzatore sociale che potesse lenire il senso di angoscia che cominciava a salire ed a toglierci il fiato. Abbiamo cercato di organizzarci, in tutti i modi, per cercare un dialogo con le rappresentanze politiche che siedono in parlamento per fare arrivare nelle segreterie politiche il senso di profonda frustrazione che attanagliava un’intera categoria dello spettacolo: Gli attori e le attrici di questo Paese. Ci siamo riusciti, abbiamo aperto un dialogo con una classe politica che era quasi totalmente ignara dei gravi problemi che affliggono le attrici e gli attori italiani. È nata una associazione: U.N.I.T.A. (Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo) la quale si è fatta carico di un grave problema di rappresentanza che mancava da oltre 30 anni di tutta la categoria attoriale. U.N.I.T.A. in pochi mesi è già riuscita a far valere le ragioni pressanti di tante attrici ed attori che si sentivano abbandonati a loro stessi. Personalmente, e ne vado fiero, ho lavorato con un gruppo straordinario di colleghi e colleghe alla nascita del registro delle Attrici e degli Attori italiani. Il primo concreto strumento in grado, finalmente, di erigere uno steccato che separi dal professionismo tutte quelle realtà che non vivono di questo mestiere. Così ho passato il primo periodo, intensissimo, della pandemia.
La ripresa delle attività cinematografiche trova ancora ostacoli, attesa la diffusione del virus ed il sovraffollamento degli ospedali. Quali prospettive ha, oggi, il Cinema Italiano ed Internazionale?
Dopo un primo fermo iniziale che ha mandato nel panico le produzioni che non avevano informazioni su come affrontare la tematica di un ritorno in sicurezza sui set, c’è stato un timido tentativo di ripresa, seguito, subito dopo, da un incremento nella fiducia di potercela fare. Per cui altre produzioni si sono accodate alle prime, mettendo in campo le energie per cominciare a programmare. Ma dopo un’estate apparentemente tranquilla ci siamo ritrovati in un limbo che non permette il dispiegarsi uniforme di un’industria che è tale perché supportata da una miriade di artigiani. Viviamo, tuttora, in questa dimensione sospesa che non ci sta dando nemmeno quelle apparenti certezze che questo nostro mestiere sembra regalarti di tanto in tanto. Forse una vera e propria programmazione potrà ripartire con l’agognato vaccino, agognato per me e per quelli che la pensano di conseguenza. Giudicando dal dibattito pubblico sembra che una grossa fetta di popolazione, per diverse ragioni, sia avversa a tale soluzione. Qui il problema si allarga ma credo che dovremmo profondamente interrogarci su come il tema “cultura” sia all’ordine del giorno di un Paese ormai alla deriva. Sul fronte internazionale non ho sufficienti conoscenze per potermi esprimere pubblicamente.
La seconda ondata è letale e stravolge spostamenti ed abitudini. Il tempo “sospeso” è vissuto in cattività ed i film, pertanto, si vedono in streaming. Ritiene Lei che si possa, pertanto, strutturare una dipendenza nella proiezione futura?
È assai probabile, che dopo un periodo di comprensibile sgomento, la possibilità di usufruire, da parte del pubblico dello streaming, possa trovare la sua ragione d’essere. Personalmente, ma questa è una visione mia personale, precedentemente alla pandemia, amavo andare nella sala ad orari impossibili per incontrare il minor numero di persone. Una terribile e terrificante necessità dovuta alla immarcescibile convinzione che la buona educazione del pubblico sia una chimera irraggiungibile. La gente va al cinema, e anche a Teatro, continuando a chattare su whatsapp, parlando tra di loro come se fossero seduti nel salotto di casa, commentando ad alta voce come se fossero i soli in quel rito che prevede concentrazione, anche per vedere la Marvel. Per cui va bene lo streaming e si fottano quel popolo di miserabili cha vanno al cinema per fare dimostrazione della loro non più sopportabile miseria umana.
Alessandro Gassman è influente attivista per l’ambiente e sensibilizza l’opinione pubblica sulla gravità dell’emergenza climatica. Secondo Lei si può essere virtuosi ed innovativi, con una rivoluzione green nel comparto del cinema e del teatro, atteso che i set cinematografici sono luoghi impattanti per l’ambiente?
Certamente sì. Il tema è stato affrontato per la prima volta nel 2010 quando l’industria di Hollywood si è posto il problema. Sui set americani è nata anche una figura professionale ad hoc: lo ‘steward ambientale’. L’audiovisivo ha fatto molto in questi anni per diffondere il messaggio ambientalista per cui sarebbe oltremodo ipocrita non volerlo affrontare nel nostro ambiente di lavoro. Le luci a led, il riciclo delle scenografie, le temperature di fresco e di caldo negli ambienti di lavoro possono e devono essere garantite senza che ci sia un impatto notevole o che non ce ne sia affatto. Gli impianti obsoleti devono essere sostituiti con altri che incrementino l’efficienza energetica. Si può fare molto in questo senso e credo che verrà fatto. Non abbiamo alternative.