Mancata prevenzione, il medico ne risponde

Mancata prevenzione, il medico ne risponde

1 Maggio 2019 0 Di Avv. Corrado Riggio

Secondo la Suprema Corte di Cassazione – Sezione III civile, Sentenza numero 8461 del 27 marzo 2019 – il medico risponde anche della mancata prevenzione della malattia.

In pratica, i Supremi Giudici hanno statuito che è configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi.

Laddove il danno dedotto sia costituito anche dall’evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda, in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile, piuttosto che al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite.

È questo, pertanto, il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte nella Sentenza sopra citata che ha accolto il ricorso promosso dai figli di una signora deceduta in corso di causa a seguito di tumore maligno diagnosticato tardivamente. Nello specifico, la donna, dopo una prima ecografia alla mammella, effettuata in uno studio privato con diagnosi che escludeva un tumore maligno, a distanza di pochi giorni si era recata presso la Asl di zona, richiedendo un controllo senologico.

In quell’occasione, il medico confermava la natura “benigna” della patologia, suggerendo alla paziente un ulteriore controllo a distanza di sei mesi.

Tale successivo controllo rivelava però la natura maligna ed aggressiva della patologia, con necessaria asportazione radicale della mammella, intervento al quale seguivano cure chemioterapiche invasive e due ulteriori interventi di chirurgia plastica. Mentre il Giudice di primo grado aveva respinto la domanda risarcitoria ritenendo le prove non sufficienti a dimostrare il nesso tra la negligenza del medico e la patologia e il successivo decesso, in Appello il medico e la Asl venivano condannati al risarcimento del danno patrimoniale corrispondente al reddito medio che la donna avrebbe garantito per il periodo di sopravvivenza di cui avrebbe potuto godere in caso di tempestiva diagnosi.

La vertenza è così approdata in Cassazione, dove gli eredi hanno contestato la decisione per non aver applicato correttamente i principi civilistici in materia di nesso di causalità: in particolare, hanno lamentato che la motivazione fosse riferita non alle conseguenze della condotta negligente costituita dall’evento morte, ma soltanto all’ipotetica maggiore durata della vita di cui la donna avrebbe potuto godere, fondando tale statuizione su una erronea e lacunosa interpretazione della Ctu rinnovata in grado d’Appello. In particolare, il Giudice dell’Appello non avrebbe tenuto conto dei chiarimenti resi dall’ausiliare, giungendo all’erronea convinzione secondo cui “in presenza di una tempestiva diagnosi, la donna avrebbe potuto godere soltanto di due anni di vita in più, mentre le maggiori percentuali di sopravvivenza indicate nell’accertamento peritale (oltre i dieci anni, dal 75 all’80, 85 % dei casi) ed il minore rischio di morte (a dieci anni, dal 21 al 7%) avevano valorizzato una possibilità di sopravvivenza, in termini percentuali, ben superiore senza limiti di tempo scientificamente apprezzabili.

Al riguardo, la Cassazione ha avuto già in passato modo di affermare che il mancato esame delle complete risultanze della Ctu integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di Cassazione – ai sensi dell’articolo 360 del codice di procedura civile, comma 1, numero 5 – come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La Suprema Corte, pertanto, nell’accogliere il ricorso, ha osservato che il Giudice dell’Appello effettivamente, pur richiamando il principio del “più probabile che non”, non ne ha fatto corretta applicazione in quanto ha statuito che la morte della donna non sarebbe stata evitata dalla diagnosi tempestiva del medico, la quale avrebbe consentito soltanto una sopravvivenza più lunga di due anni, ed ha applicato il principio di causalità esclusivamente in relazione al lasso temporale di vita non vissuta.

La decisione impugnata, pertanto, si è focalizzata non sull’evento morte ma sul probabile tempo di sopravvivenza, configurando il vizio di violazione di legge denunciato dai ricorrenti.

A conclusione, sussiste pertanto una responsabilità del medico che è chiamato a rispondere anche della mancata prevenzione della malattia.