Medici Ssn in fuga dagli ospedali, ecco le ragioni del fenomeno
25 Giugno 2023Anche gli ospedali si spopolano. Dalle corsie quest’anno in migliaia stanno per aprirsi una via di fuga. Non solo per pensionarsi: ben cinquemila medici si sarebbero informati sulla possibilità di dimettersi e andare a lavorare nella sanità privata, l’anno scorso sono stati 2800 (stando a dati Inps incrociati con dati Onaosi). Prima del Covid non c’erano dimissioni; dopo, i nodi sono venuti al pettine. A pesare, sono: l’accorpamento dei reparti a causa del DM 70, che ha offerto meno chance di carriera a migliaia in età “matura”; le buste paga tra le più basse d’Europa; la sempre più rara possibilità di praticare la libera professione, specie per chi opera in prima linea nella lotta alle malattie trasmissibili e nell’emergenza-urgenza; i corsi di specializzazione disertati nelle discipline dove si fa meno carriera; le ore di straordinario non pagate; i contratti che non ripagano dell’inflazione (quello 2019-21 darà massimo 4 punti contro gli 8 di perdita di valore d’acquisto dei salari dovuta alla guerra). C’è di più: il burnout in corsia abbrevia la vita. Uno studio della rivista Uk Lifestyle Medicine su dati BMJ raccolti tra il 1997 e il 2019, indica che alcuni medici vivono meno della popolazione generale. Benessere economico, prevenzione, passaparola per diagnostica e terapia giovano poco a chi lavora nel National Health Service: il medico di famiglia in convenzione vive 20 anni di più del medico di pronto soccorso o dell’anestesista. I numeri direbbero che in Italia i molti medici ospedalieri in fuga verso il corso di medicina generale abbiano fiutato l’aria. Per contro, altre cifre, come quelle del Piano Nazionale Esiti, testimoniano di ospedali del servizio sanitario pubblico che malgrado tutto restano competitivi. Visti dalla parte del “camice”, quali sforzi stanno facendo le aziende sanitarie per venire incontro al personale e quali scelte stanno trascurando? Ne parliamo con Stefano Magnone segretario Anaao Assomed in Lombardia, regione dove la competizione pubblico-privato è al top.
Anaao Lombardia, premette Magnone, sta progettando una ricerca con giuslavoristi e psicologi per capire come si è modificata negli anni l’attrattività degli ospedali tra i giovani medici e perché il “posto fisso” non sia più così determinante. «La Regione assume, il numero di medici dirigenti è cresciuto negli ultimi tre anni, e problemi di turnover non ne avremmo se non ci fossero ospedali che stentano ad attrarre personale sanitario. Però -osserva Magnone- per la prima volta nella storia del SSN i medici non sono troppi. Non ci sono specialisti disoccupati, a causa di una programmazione sbagliata di 10-15 anni fa, (anche se il numero programmato di cui tanto si parla non c’entra nulla), e il medico può scegliere dove andare. In Lombardia sceglie i centri di eccellenza, ospedali grandi, con volumi di prestazioni congrui e conseguenti chance di crescita professionale. Va via da ospedali piccoli che non garantiscono gli standard di prestazione sempre più elevati che i protocolli di diagnosi e cura richiedono. Per arginare il trend, la regione, ascoltando i sindaci, tiene aperti reparti (e pronti soccorso) come può, ma non può fermare le lettere di dimissione». A soffrire «sono soprattutto ospedali medio-piccoli in aree densamente popolate con PS affollati: strutture pluridisciplinari, dove chi si reca per un’urgenza crede di trovare diagnosi e cure, salvo poi essere dirottato all’ospedale di un’altra città perché manca chi fa quel servizio».
Il privato ha diversa capacità di investimento. «È avvantaggiato da fattori noti: anziché assumere può pagare, e tanto, personale a partita Iva; può aprire pronti soccorso mono-specialistici da appena 8 mila accessi l’anno; può chiudere servizi da un giorno all’altro senza che la Regione gli chieda il motivo; può scegliere gli interventi che fa, più elezione che urgenza, e in elezione attrae molti pazienti del Sud». Invece nella struttura pubblica la catena di comando è più delicata, «basta un direttore generale senza i numeri, un direttore (una volta si chiamavano primari) mal nominato, e in certe aziende il clima degenera. In più, quando vedi premiato non il collega più bravo ma chi sta meglio in una situazione, o quando vedi il tuo intervento d’urgenza complesso pagato come quello più semplice programmato da tempo, o quando non ti pagano né le ore straordinarie né il disagio, la possibilità di veder riconosciuto il tuo valore in una clinica privata come nella cooperativa ti spinge a cambiare». In 30 anni in Lombardia, per Magnone, «quella concorrenza pubblico-privato che doveva rappresentare uno stimolo non sembra aver innalzato né gli standard né la soddisfazione dell’utenza. Cresce il numero di residenti disposti a curarsi di tasca propria». Come si salva l’ospedalità regionale? «Noi chiediamo all’Assessore di cambiare le regole e gli standard per entrare nella rete, adottando regole vere. E serve un’Agenzia dei controlli in grado di portare a compimento le sue verifiche. È finito il tempo di sopprimere letti: siamo già sotto soglia in tutte le unità operative; per una vera competizione servono un servizio pubblico meno asfittico ed un privato che superi asticelle poste alla stessa altezza».