Morbo di Cushing, diagnosi e trattamento dopo la chirurgia

Morbo di Cushing, diagnosi e trattamento dopo la chirurgia

21 Novembre 2021 0 Di La Redazione

È stata pubblicata di recente su “Endocrine” una revisione sistematica della letteratura su diagnosi e trattamento della recidiva e della persistenza della malattia di Cushing dopo chirurgia ipofisaria. «Sono state inizialmente analizzate dagli autori tutte le pubblicazioni (717) comparse in Pubmed tra il 1980 e l’aprile 2020, utilizzando il sistema MESH con i due termini “Cushing’sdisease” e “recurrence”» spiega Marco Faustini-Fustini, Pituitary Unit, IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna (ISNB), Ospedale Bellaria, Bologna.

«Una volta escluse le pubblicazioni riguardanti le discipline veterinarie, la popolazione pediatrica, il periodo della gravidanza, gli studi con meno di 10 casi, i case report, gli editoriali e i commenti, sono rimaste 134 pubblicazioni da analizzare». Un problema che ha complicato l’interpretazione dei risultati, segnala lo specialista, è stata la notevole differenza nella definizione dei criteri di remissione e recidiva. «Il tasso di recidiva aumenta con l’aumentare del follow-up e l’intervallo temporale nella comparsa della recidiva è molto ampio, da 3 a 158 mesi, anche se circa il 50% delle recidive avviene nei primi 50 mesi dalla chirurgia ipofisaria» riporta Faustini-Fustini. «I principali fattori che possono influenzare la comparsa della recidiva sono: a) le dimensioni dell’adenoma; b) l’esperienza del neurochirurgo; c) l’identificazione pre-operatoria del tumore mediante RM; d) la cortisolemia nella prima settimana dopo la chirurgia; e) la presenza di mutazioni somatiche del gene USP8; f) la mancata conferma istopatologica di adenoma corticotropo nel materiale inviato al patologo». Riguardo alla sorveglianza dei pazienti operati «I dati raccolti non hanno registrato un accordo unanime sulle modalità e la tempistica da utilizzare nel follow-up.» riferisce l’esperto. In ogni caso, «è consigliato almeno un controllo annuale – clinico e biochimico – nei 10 anni che seguono l’atto chirurgico». In merito agli esami ormonali, prosegue Faustini-Fustini, «sono stati proposti numerosi test per evidenziare precocemente la recidiva: cortisolo salivare notturno, cortisolo libero urinario, test di soppressione con desametasone a basse dosi, test con desmopressina, test combinato desametasone-desmopressina. Il cortisolo libero urinario si è rivelato il meno sensibile e specifico, a causa dell’ampia cross-reattività dei comuni dosaggi immunometrici verso altri steroidi urinari».

In riferimento all’imaging, «come accade nella fase preoperatoria, la RM non sempre riesce a identificare la lesione nei casi in cui vi è evidenza clinica e biochimica di recidiva di malattia. In caso di negatività della RM a 1.5 Tesla, è consigliabile eseguire la RM a 3 Tesla. Nell’ultimo decennio, alcuni studi hanno proposto di migliorare la sensibilità delle tecniche neuroradiologiche nelle recidive della malattia di Cushing utilizzando le sequenze FLAIR post-contrastografiche in RM o associando alla RM a 3 Tesla la tecnica PET (con metionina o con FDG), ma mancano ancora dati conclusivi». Per il trattamento della recidiva gli autori esaminano diverse strategie di intervento: a) Chirurgia ipofisaria. Dopo il primo approccio chirurgico – riferisce Faustini-Fustini – il tasso medio di remissione con un secondo intervento è del 54% in caso di persistenza di malattia, che sale al 64% (con un intervallo di confidenza 38- 90%) in caso di recidiva. Il secondo intervento chirurgico è gravato, in generale, da un maggior rischio di ipopituitarismo (variabile tra il 19 e il 64%). 2) Trattamento radiante. Può essere eseguito sia con tecnica convenzionale (in 25-30 sedute) sia con radiochirurgia stereotassica (in un’unica seduta). In generale – riporta lo specialista – il tasso di remissione mediano è soddisfacente (80%) con la radioterapia convenzionale, ma il periodo mediano necessario per raggiungere la remissione è elevato (8 mesi). I risultati sono lievemente inferiori con la radiochirurgia stereotassica, con tassi di remissione variabili tra il 57% e il 76%: anche utilizzando questa tecnica il tempo richiesto per il raggiungimento dello stato di remissione è elevato. Pertanto, è necessario ricorrere alla terapia medica in attesa che si possa produrre il risultato atteso. c) Trattamento farmacologico. I farmaci disponibili, prosegue Faustini-Fustini, possono agire su: 1) cellule ipofisarie corticotrope (pasireotide e cabergolina); 2) cellule cortico-surrenaliche (inibitori della steroidogenesi: chetoconazolo, mitotane, metirapone, etomidate, osilodrostat); 3) recettori dei glucocorticoidi (mifepristone, non disponibile in Europa). Questi farmaci possono anche essere combinati fra loro e sono relativamente sicuri, se usati correttamente monitorando la comparsa dei possibili effetti collaterali (epatotossicità, ipopotassiemia, irsutismo, aritmie). L’efficacia è molto variabile. I farmaci diretti contro le cellule corticotrope possono essere utilizzati principalmente nelle forme lievi e moderate. Il tasso di controllo dell’ipercortisolismo mediante pasireotide si attesta attorno al 40%; è di poco inferiore con cabergolina, ma la risposta tende progressivamente a svanire nel 22% dei pazienti che rispondono inizialmente al farmaco. In generale, l’effetto della terapia farmacologica è abbastanza rapido, soprattutto nel caso si utilizzino gli inibitori della steroidogenesi. Oltre agli effetti collaterali, altri svantaggi includono l’elevato costo se usati a lungo e il fatto che non costituiscono una terapia definitiva. Sono in fase avanzata di studio (fase II e fase III) nuovi inibitori della steroidogenesi e bloccanti il recettore dei glucocorticoidi: levo-chetoconazolo, relacoriland. d) Surrenectomia bilaterale. È proposta in caso di fallimento degli altri trattamenti oppure quale terapia di emergenza nel caso di grave ipercortisolismo incontrollato, riporta Faustini-Fustini. La mortalità operatoria è bassa (3%). Gli svantaggi sono la possibile comparsa della sindrome di Nelson (8-29% dei casi) e l’insufficienza surrenalica permanente. La radioterapia profilattica per ridurre il rischio di sindrome di Nelson non è una pratica molto diffusa, poiché non ne è stato ancora dimostrato il reale vantaggio.

Nella revisione sono infine contenute raccomandazioni nelle recidive di lieve entità. «Nei casi dubbi, in cui la recidiva non è certa, è raccomandato un atteggiamento di vigile attesa, ripetendo i test diagnostici» riferisce l’esperto. «Nelle forme accertate di recidiva, anche se clinicamente e biochimicamente lievi e con RM negativa, è raccomandato di iniziare il trattamento medico precocemente, per migliorare la qualità di vita e ridurre il rischio di complicanze. In caso di recidiva di malattia documentata anche dalla RM è consigliato di considerare la possibilità del secondo intervento chirurgico» conclude Faustini-Fustini.

 

 

Fonte: DoctorNews33