Non siamo ciechi

Non siamo ciechi

20 Luglio 2024 Off Di Corrado Caso

“Non siamo ciechi…viviamo in una realtà alla quale cerchiamo di adattarci come alghe che si piegano sotto la spinta del mare”. È l’amara riflessione del Principe di Saline nel romanzo di Tommasi di Lampedusa “Il Gattopardo”.

Un manipolo di camicie rosse irresistibile e incendiario s’imbarcò a Genova nella notte del 5 maggio 1860 per approdare a Marsala. Nell’oscurità della navigazione tracciarono i contorni, le diverse insenature e i promontori della grande bellezza. La speranza, di quanti credevano in un ideale di patria, era il ricucire la molteplicità degli idiomi, delle usanze, del territorio in una bandiera di tre colori da sventolare sui Campanile, i Municipi delle città in festa. Erano giovani pronti a sacrificare la loro esistenza per un ideale antico e raccogliere sotto lo stesso cielo popoli diversi, geneticamente figli della stessa terra. Non tutto è come si racconta perché c’era una brutta commistione in quel gruppo per la presenza di disertori, avventurieri, ladri e assassini.

In quegli anni la guerra bruciò i territori e la vita. Inasprì i cardi che puntuti si colorarono di rosso. Divise la pula dai semi e quest’ultimi li sparse sulla nuda terra e divennero pietre miliari di una storia diversa.

Garibaldi fu colpito in Aspromonte dai piemontesi! Il protagonista di mille battaglie, l’eroe dei due mondi che la leggenda aveva reso invulnerabile fu ferito ad una gamba. Fu, allora, che Bixio sanguinario e assassino ordinò con il metro della sua ottusità di fare gl’italiani a sua immagine e somiglianza e credette di poterlo fare a colpi di scalpello. Ma la pietra del Vesuvio è un insolito diamante nero e duro come l’inferno. La corona inglese e il grande muratore con il grembiule da lavoro spuntiva ogni arnese nelle officine dei grandi palazzi della city. Fu allora che, in una riunione segreta, invasori e lacchè piegarono le resistenze, distrussero l’anima di un popolo, la dignità, la storia. Derubarono le industrie, la produttività e le bellezze del sud e decretarono lo stato di povertà e un ordine nuovo dove garante sarebbe diventata  la mafia, la ndrangheta e la camorra.

Garibaldi fu colpito in Aspromonte e disse “Obbedisco”. La narrazione del suo eroismo, l’ala protettiva del mito non lo salvarono dalla ferocia dei piemontesi. Forse la nuda terra dove cadde ferito, ancora oggi, partorisce fiori di sangue. L’eroe cadde e comprese che i sognatori sarebbero diventati poeti e non più uomini d’azione perché a Mentana i francesi facevano strage dei mazziniani riuscendo a preservare il potere temporale dei Papi.

Vittorio Emanuele aveva la barba. Un collo doppio e apnoico, una pupilla inaccessibile, dolorosa come un ago di ghiaccio infisso nella carne di Camillo conte di Cavour. Fu così che sul trono delle due Sicilie sedette il ventre flaccido di un furto, un inganno liquido e melmoso che arrugginì i cannoni dell’esercito borbonico, ne affondò la potente flotta e gonfiò la pancia di generali corrotti e traditori. La platea, le decorazioni, i bassorilievi del Teatro San Carlo  videro gente  che parlava  una lingua diversa rinnegando o non conoscendo il più bel dialetto del mondo: il napoletano. Non c’era più il Borbone e nella Reggia del Vanvitelli a Caserta i funzionari razziarono ogni cosa, seduti sui bidè scambiati per oggetti misteriosi.

“La storia, come insegna la storia, è scritta dai vincitori”.

Così le vittime divennero carnefici, i patrioti briganti, i morti assassinati di Bronte contadini esageratamente sindacalizzati. Anni a seguire a Portella della Ginestra le mamme, prima di morire uccise offrirono il petto di sangue ai figli proteggendoli con il loro corpo.

I soldati di piombo non si muovono, sono senza anima, una mano li spinge e una mente ne decreta l’ora della morte e loro…”si piegano come le alghe sotto la spinta del mare”.

Diversamente alla fine della nostra storia, il suono della tromba dei Bersaglieri, lo sventolio di piume di gallo cedrone agitate dal vento e la piccola vedetta lombarda rese tutto credibile. La gente comune, quella che sogna, agitò i panni della fratellanza sugli usci delle abitazioni, per le strade in festa.

“Arrivano i nostri” e non erano i “nostri” ma pensieri dissolti al vento di scirocco e illusioni che svanirono all’alba. I “nostri” della storia   trucidarono gli indiani, tutti gli indiani della terra strappandoli dalla loro pelle, confondendone l’identità e il diritto ad essere lasciati in pace con le loro cose, i loro affetti, la loro vita, la loro storia.

Non dissimile la realtà che viviamo. La precede un secolo di odio che ha profondamente lacerato le nazioni schierandole su fronti contrapposti, armando la mano di assassini e paranoici contro popoli inerti. Monti, valli, mare e cielo conobbero l’orrore, il dolore.

Anni dopo cadde il muro di Berlino. I mattoni avevano le impronte dei perseguitati. Ma, senza che ce ne accorgessimo, stavamo indossando un diverso Dna costruito in euro, debiti, fallimenti, ruberie. Ancora una volta gli ideali si erano arenati nei caveaux delle banche. Non più vecchie divise, non il rumore dei tacchi degli stivali o l’esaltazione di parole d’ordine ma una guerra strisciante di interessi nazionali, sovranazionali, regionali e condominiali che ha trasformato le persone, modificato il linguaggio, destrutturato i buoni propositi. Una luna malefica e nascosta scrive del destino e della stessa stabilità delle nazioni. Brucia l’Ucraina e il Medio Oriente. Brucia il pianeta.

Approda sulle nostre coste un esercito di disperati che chiede la ragione di secoli di sfruttamento e guerre. I più sono avvolti in una placenta di morte, una gelatina in fasce che li accompagna dalla nascita. Perdono figli, parenti e la speranza. Le carrette del mare affondano con il loro carico umano o sbarcano indifferentemente popoli affamati e terrore assassino.

Il popolo meridionale è anch’esso una realtà migrante. Viaggia di    notte dormendo sui sedili di un pullman. Ha il sonno inquieto dei senza lavoro, dei precari. Molti abbandonano l’Italia sfiduciati dalla ipocrisia dei politici e dalla volgare propaganda della gente del nord. La mia terra è diventata veleno, la mia terra è abbandonata e asservita alla logica del profitto di chi   minaccia con le scorie industriali esistenza e vita nel generale disinteresse delle istituzioni. Gli adulti collezionano tumori, i nati malattie genetiche e un alto tasso di leucemia, gli animali incredulità e morte.