Parthenope di Paolo Sorrentino: quando il dissacrante supera il limiterei
12 Novembre 2024L’ultimo lavoro cinematografico di Paolo Sorrentino, Parthenope, prometteva di essere un omaggio struggente alla città di Napoli e alle sue mille contraddizioni. Tuttavia, il risultato lascia un retrogusto amaro, aprendo una riflessione critica che si muove su tre punti fondamentali: l’erosione dell’idea di amore, il tocco blasfemo nei confronti della religione cattolica e un ritratto che talvolta sfiora l’oltraggio alla città stessa.
Dissacratorio nei confronti dell’amore
In Parthenope, l’amore – motore di ogni narrazione sorrentiniana– non è solo messo in discussione, ma quasi calpestato. Il regista sembra destrutturare il sentimento più universale, riducendolo a una caricatura. Gli amanti non sono mossi da una passione autentica, ma da pulsioni superficiali, quasi meccaniche. Il messaggio che ne deriva è gelido: l’amore, anziché essere il fulcro dell’umano, diventa uno spettacolo di egoismi e tradimenti. Un cinismo che, seppur raffinato, lascia lo spettatore disorientato e distante.
Dissacratorio verso la religione cattolica
Sorrentino non ha mai nascosto la sua propensione per un racconto intriso di simbolismi religiosi. In questo film, però, il confine tra provocazione e blasfemia appare pericolosamente sottile. Diverse scene, tra cui un surreale dialogo tra un cardinale e un’icona sacra reinterpretata in chiave grottesca, sollevano interrogativi legittimi sull’intento dell’autore. Si ha l’impressione che la religione cattolica non venga solo messa in discussione, ma apertamente derisa, lasciando spazio a interpretazioni che potrebbero ferire la sensibilità di molti spettatori, specialmente in una città profondamente legata alla propria spiritualità.
Un ritratto spietato di Napoli
Che Napoli sia una città complessa, Sorrentino lo sa bene. Tuttavia, Partenope sembra tradire quella sottile linea che separa il racconto critico dall’insulto. Clamorosa, in tal senso, la scena in cui il personaggio interpretato da Luisa Ranieri, in un momento di acceso monologo, arriva a offendere Napoli in termini espliciti, definendola “una città in guerra con sé stessa, incapace di salvarsi”. Se l’intento era scuotere, il risultato è apparso ingiustificatamente crudele, quasi compiaciuto, facendo a pezzi non solo gli stereotipi, ma anche l’orgoglio e la bellezza della città.
Il caso Sorrentino: una personalità da analisi
Paolo Sorrentino non è nuovo a provocazioni, e la sua complessità artistica e personale lo rende un soggetto affascinante anche dal punto di vista psicanalitico. Il suo cinema, denso di nevrosi, ricordi e ossessioni, si presta perfettamente a un’analisi freudiana. In Partenope, è come se il regista riversasse il suo inconscio senza filtri, creando un’opera che respinge piuttosto che accogliere. Un’introspezione che, sebbene potente, finisce per allontanare chi cerca non solo un’opera d’arte, ma anche un po’ di umanità.
Per Concludere
Parthenope non è un film da ignorare, ma nemmeno da celebrare acriticamente. Sorrentino, maestro del racconto visivo, ha scelto di attraversare territori pericolosi, rischiando di perdere il contatto con la sua stessa ispirazione. Forse, al di là delle provocazioni, ciò che manca è un cuore pulsante che restituisca al pubblico l’idea di Napoli come città di bellezza e contraddizioni, di fede e disperazione, di amore e redenzione. In questo, il regista sembra aver tradito proprio ciò che prometteva di raccontare.