Pausa pranzo soppressa? Va pagata come lavoro straordinario
20 Settembre 2019La Suprema Corte ha rigettato l’eccezione di nullità sollevata poiché l’azienda non aveva predisposto alcuna turnazione che consentisse ai lavoratori la consumazione del pasto.
La Corte di Cassazione con Ordinanza recante numero 21325 del 2019 ha statuito che nel momento in cui il datore di lavoro, nel caso di specie una Azienda Sanitaria Locale, sopprime la pausa pranzo, rilasciando ai propri dipendenti dei buoni pasto da spendere al di fuori dell’orario lavorativo, ma poi pretende di far recuperare loro i quindici minuti destinati alla stessa, anche se di fatto non goduta, deve retribuire questo tempo in più come lavoro straordinario.
Nel caso che ci occupa, già la Corte d’Appello aveva confermato quanto deciso dal Giudice di primo grado nel ricorso proposto da due dipendenti contro la Asl datrice di lavoro, per il riconoscimento del diritto di vedersi retribuire, con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario, il tempo pari a quindici minuti che la Asl, una volta abolita la pausa pranzo e disposta, in sostituzione, l’attribuzione di buoni pasto da spendere presso terzi convenzionati, aveva preteso fosse recuperato senza retribuzione per ogni giorno di effettiva percezione del buono.
In pratica la Corte d’Appello aveva rigettato l’eccezione di nullità sollevata dalla Asl poiché l’azienda datrice di lavoro non aveva predisposto alcuna turnazione che consentisse ai lavoratori la consumazione del pasto e non avendo, dunque, il personale fruito di effettive pause a ciò finalizzate e non trovando giustificazione alcuna la pretesa dell’Azienda di vedere prolungato di quindici minuti l’orario di lavoro da parte dei dipendenti beneficiari dei buoni pasto spendibili solo fuori dell’orario di lavoro.
A questo punto l’Asl soccombente ha presentato ricorso per Cassazione chiedendo di dichiarare nulla la Sentenza emessa dalla Corte d’Appello in quanto la stessa aveva affermato l’interesse ad agire dei dipendenti in relazione alla retribuzione di prestazioni aggiuntive senza specificare nel concreto le unità temporali in cui sono state rese le prestazioni di lavoro straordinario e lamentando il malgoverno delle norme che regolano l’allegazione delle prove.
La Cassazione con l’Ordinanza sopra richiamata ha rigettato entrambi i motivi di ricorso della Asl poiché infondati, dovendosi condividere la qualificazione della domanda dei dipendenti, da parte del Giudice di merito, alla cui discrezionalità, del resto, la stessa è rimessa, qualificazione per la quale, essendo la domanda volta al riconoscimento quale imposizione di lavoro straordinario della richiesta da parte della Asl di una prestazione lavorativa di durata ulteriore rispetto a quella ordinaria pari a quindici minuti per ogni giornata in cui veniva corrisposto il buono pasto, trattavasi di un’azione di accertamento finalizzata alla verifica del carattere aggiuntivo e dunque straordinario della prestazione protratta per ulteriori quindici minuti, in relazione alla quale risultavano essenziali e, così, sufficienti ai fini dell’assolvimento degli oneri di allegazione e prova l’indicazione delle fonti contrattuali da cui era desumibile l’obbligo della Asl di consentire, durante l’orario di lavoro, la fruizione di una pausa per la consumazione del pasto e la specificazione in fatto della circostanza per cui i dipendenti per ogni giorno di effettiva percezione dei buoni pasto, puntualmente indicato, si sono visti prolungare di quindici minuti l’orario di lavoro.
Pertanto, alla luce di tali considerazioni la Suprema Corte ha sancito il diritto dei lavoratori di vedersi retribuito questo tempo in più pari a quindici minuti come lavoro straordinario.