Stefano Usai: “La cosa che più conta in assoluto è credere in se stessi”
24 Dicembre 2021Il calcio a 5 si gioca su un terreno rettangolare la cui superficie può essere di legno, di terra battuta o di materiale sintetico. Si svolge con le stesse modalità del calcio anche se con regole differenti. La durata di un incontro è di due periodi da 20 minuti. Ciascuna squadra è formata da 5 giocatori, portiere compreso.
Oggi abbiamo l’onore di parlare di sport, Covid e salute con uno dei massimi esponenti a livello nazionale di questo sport: Stefano Usai.
Come ha vissuto e come vive la paura della pandemia, del contagio e il notevole disagio legato alle indispensabili, severe misure restrittive?
L’emergenza sanitaria che ci troviamo ad affrontare a causa della pandemia in corso, ha cambiato le abitudini quotidiane di tutti noi. Sinceramente, a distanza di quasi due anni, faccio ancora fatica ad abituarmi all’idea di dovermi coprire il volto con una mascherina per poter uscire di casa. Se c’è una cosa che ho imparato nel corso della mia esistenza è però che bisogna cercare di cogliere sempre gli aspetti positivi che le diverse situazioni della vita ci pongono innanzi ed a concentrarmi su questi.
Nel periodo del lockdown quindi, avendo avuto molto più tempo da dedicare a me stesso, ho creato una mia routine quotidiana fatta di esercizio fisico e buone letture, in modo tale da autoimpormi una disciplina che mi allontanasse dal… divano. Ormai è acclarato che l’ozio porti a tutta una serie di problematiche negative fino ad arrivare alla depressione e quindi ho pensato che dovessi fare di tutto per evitare d’impigrirmi. Attualmente per fortuna ci siamo, almeno per ora, lasciati alle spalle le chiusure forzate ma quanto ho appreso in quei giorni mi è servito moltissimo ed ho inserito parte di quella routine nelle attività che sono solito praticare nel quotidiano.
Certo, la speranza è che nel 2022 si possa finalmente intravedere la luce in fondo al tunnel, ma, francamente, mi sembra che siamo ancora molto lontani dalla soluzione del problema.
Quanti danni hanno causato allo sport le chiusure indiscriminate e la confusa gestione politica?
Le chiusure indiscriminate che abbiamo dovuto subire ad inizio pandemia e la -a dir poco “rivedibile”- gestione politica dello stato emergenziale hanno causato immani danni a chi fa sport e soprattutto a chi di quest’ultimo vive. Si sono considerate le attività legate allo sport come superflue o comunque non strettamente necessarie e prioritarie per la nostra società.
Tutto ciò, a mio avviso, è totalmente sbagliato per almeno tre ragioni:
– Economica: lo sport e tutto l’indotto che ruota intorno ad esso è fonte di sostentamento per tanti individui ed, in alcuni casi, per intere famiglie;
– Salutistico: ormai è dimostrato scientificamente come lo sport sia un toccasana non solo a livello fisico ma anche psichico. Proprio nel momento in cui le persone avevano più bisogno di scaricare tramite questa fantastica valvola di sfogo anti-stress, coercitivamente gli è stato impedito di poterlo fare;
– Culturale: in Italia siamo abituati a trattare la materia sportiva come se fosse un qualcosa di quantomeno non troppo importante se non addirittura di sbagliato. Basti pensare il poco peso che viene dato all’attività motoria nelle nostre scuole di primo e secondo grado. A tal proposito c’è un libro molto bello del giornalista sportivo Carlo Nesti che tratta l’argomento ed arriva alla conclusione che nell’epoca post-fascista, per chiudere giustamente con l’esperienza del ventennio, si è “buttato il bambino insieme all’acqua sporca” ed in questo caso il “bambino” è proprio l’educazione fisica: essa viene ingiustamente codificata come un qualcosa di fascistoide, mentre ovviamente l’attività motoria non può essere identificata con i balilla.
Mi sembra che più in generale, a livello culturale, si continui a pagare dazio e questa stortura purtroppo accompagni ancora il mondo dello sport.
Quanto valore attribuisce al binomio sport e salute, ovvero quanto è fondamentale l’attività sportiva per conseguire e mantenere il benessere psicofisico?
Chi scrive è un docente di Scienze Motorie e Sportive nella scuola secondaria di secondo grado e la maggior parte delle lezioni che tengo ai miei allievi sono incentrate sul cercare di fargli capire che, se vogliono avere una vita caratterizzata dal fatto di sentirsi sempre attivi, pieni di energie e pronti dal punto di vista non solo fisico ma anche mentale, non possono fare a meno della pratica sportiva. Spiego loro che non è importante quale sia l’attività sportiva da loro scelta ma che è fondamentale che questa sia presente nelle loro giornate.
I ragazzi d’oggi fanno parte di quella che viene comunemente denominata come “generazione digitale” e credo che purtroppo il termine “digitale” includa anche un forte deficit di carattere motorio: alla loro età, per poter fare qualcosa di diverso dallo studio, noi eravamo costretti a scendere in cortile, magari con un pallone sotto braccio. I ragazzi d’oggi sono invece continuamente alle prese con attività sedentarie: telefonini, computer, playstation e televisione hanno tolto spazio all’aria aperta ed alle corse spensierate.
Credo che il mio compito primario, in qualità di loro insegnante di Scienze Motorie e Sportive, sia di fargli prendere coscienza di questa situazione e di farli riflettere su quanto invece l’attività fisica sia fondamentale per la salute di corpo e mente.
Quando poi qualche mio studente mi dice che tende a non dare tanta importanza allo sport in quanto la sua priorità debba essere lo studio, gli sottopongo gli esiti di una ricerca dimostrante che i ragazzi tra 12 ed i 18 anni impegnati attivamente in uno sport agonistico ottengano in media risultati migliori in campo scolastico rispetto ai coetanei non impegnati dal punto di vista sportivo. Tutto ciò avviene perché la pratica sportiva ci impone una disciplina, una gestione oculata del tempo che scandisce le nostre giornate ed è un motore indispensabile, generatore d’entusiasmo e motivazione.
Cosa le ha dato lo sport in termini di crescita personale, sociale e professionale ?
Finché siamo bambini tutto è gioco e questo, il più delle volte, si manifesta tramite la pratica sportiva. Lo psicologo Giovanni Notarnicola sintetizza tutto ciò tramite un concetto, a mio modo di vedere, emblematico: “Non si può separare il bambino dal gioco, perché egli stesso è gioco. Allo stesso modo non si può dividere la volpe dalla natura, perché essa stessa è natura”. Spesso identifichiamo la nostra infanzia come il periodo della felice spensieratezza, della prevalenza del fattore ludico su tutto il resto. Allora la domanda che, a mio avviso, dovremmo porci è il perché da adulti smettiamo di rincorrere quell’ebbrezza che il cortile ci dava. C’è forse un modo per ritrovarne l’incanto? Prendo in prestito una frase a me molto cara, è di Jesus Velasco, commissario tecnico della nazionale italiana di Volley, campione del mondo nel 1990 e nel 1994: “Da bambini tutto è gioco, invece da adulti l’unico modo che abbiamo per tornare a giocare è il cimentarsi nella pratica sportiva”.S
Credo che proprio questa sia una delle cose più importanti che lo sport mi abbia insegnato: avere la capacità di ritrovare il fanciullino di pascoliana memoria che alberga in ognuno di noi.
Da una parte quindi lo sport ci aiuta a ritrovare quello stato di gioia che si aveva quando si era bambini e si giocava senza chiedersi il perché lo si facesse, dall’altra però ci insegna che la lotta quotidiana debba essere principalmente con noi stessi: per superare i nostri limiti.
Quando, grazie allo sport, ti trovi ad intraprendere questo percorso capisci che il tanto agognato risultato finale non sia in realtà l’unica cosa che davvero conti per te. La bellezza, secondo me, infatti sta proprio nel percorso che si fa per raggiungerlo: bisogna godere dei piccoli miglioramenti che si riescono ad ottenere giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, apprezzando ogni singolo sacrificio che si riesce a compiere nel tragitto.
Un’altra cosa che ritengo contraddistingua lo sport creando un vero e proprio discrimine tra questo e tanti altri settori della nostra società, è che esso non possa non essere meritocratico. In una società in cui troppo spesso le carriere sono dettate da altri fattori, molto meno nobili, qui alla fine “parla solo il campo”. I risultati che riesci ad ottenere in campo sportivo sono tangibili ed incontrovertibili. Personalmente mi guardo alle spalle e dico: “ma davvero sono riuscito a fare tutto questo?”. Quando mi domandano come abbia fatto a diventare il giocatore che ha vinto di più in Italia nella disciplina sportiva che pratico, sono solito rispondere che tutto ciò sia dovuto al fatto che la mia autostima sia andata ben oltre i miei limiti. E lo devo proprio allo sport: quest’ultimo t’insegna infatti che la cosa che più conta in assoluto è credere in se stessi. Personalmente penso di aver incontrato nella mia carriera qualche compagno o avversario che forse poteva avere qualche capacità di base in più del sottoscritto eppure quello che ho fatto io in Italia non è riuscito a farlo nessuno e, a mio avviso, il segreto sta tutto qui: ci ho creduto, ergo ci ho lavorato sopra, molto più degli altri.
In definitiva penso che questa sia la chiave di volta che mi ha fatto crescere dal punto di vista umano, sociale e professionale. Insomma, posso affermare con decisione che, nel mio caso lo sport sia davvero stato scuola di vita.