Storie di dolore, di speranza e morte ai tempi dell’influenza Spagnola …
10 Febbraio 2024Mio nonno ritornò dal cimitero dopo aver ricoperto con un piccolo cumulo di terra un figlio pandemico. Aprì l’uscio della morte, perché la morte abitava in quei giorni in casa sua. Aveva i piedi gonfi. La rabbia gli strozzava il collo e tra le grandi mani raccolse, ancora, un piccolo fagotto disteso sul letto avvolto in una coperta militare. Era il corpo esangue di un altro figlio che lo aspettava. Era il figlio più amato perché il più piccolo e indifeso.
La pandemia spagnola si sovrappose a un tempo di scannamento e morte. I giovani lasciarono la loro carne sui cavalli di frisia. Morì la meglio gioventù perché le dissero che per la Patria si doveva morire. Terminata la guerra, riposero il milite ignoto nel sacello dell’Altare della Patria. Era il corpo sfregiato di un soldato sconosciuto che ebbe come ultima consegna di ricordare un esercito di giovani sacrificati o giustiziati dai loro stessi fratelli per ordine dei tanti Luigi Cadorna che affollano la storia. Tornarono i reduci convinti di ricevere la medaglia della riconoscenza per le sofferenze sopportate ma si accorsero che le uniche medaglie erano le innumerevoli ferite che avrebbero volentieri nascoste alla commiserazione.
Ferite che non ebbero modo di rimarginare perché comparvero, nuovamente e in un tempo breve, gli assassini e con loro morte e distruzione. Fu il tempo dei dittatori e di un Re sciabolino e noi…noi fummo vittime e carnefici. Le città si trasformarono in cumuli di macerie. Gli uomini morirono al fronte e sulle montagne della resistenza. Un popolo di innocenti fu deportato nei lager o precipitato nella gola profonda delle foibe.
Rimase la miseria, il tempo dei sciuscià, dei palazzi sventrati come la casa delle bambole che si affacciavano sul porto di Napoli, di una Napoli come tante città buia e impaurita. Non altri rumori ma solo il muggito delle navi, un suono lungo, lacerante che riempiva l’aria di uno strazio infinito. Era un popolo di migranti che si imbarcavano: valigie di cartone, volti scavati dalla fame, vedove bianche e occhi di pianto e “nce ne costa lacreme st’America” cantavano.
Tutto era accaduto in quegli anni. Tutto il male possibile.
Al liceo il mio insegnante, un uomo dallo sguardo severo, figlio di quella Magna Grecia che civilizzò il mondo, ripeteva con una impercettibile aria di scetticismo un aforisma di Cicerone “Historia magistra vitae (la storia è maestra di vita)”. Un insegnamento che ispira il pensiero dei saggi ma è un inutile orpello per i cretini.
Fu sgretolato il muro di Berlino e furono canti e abbracci nella convinzione che da questo nascesse un mondo nuovo e senza divisioni perché eravamo diventati fratelli, figli di questo mondo.
Ma ci accorgemmo che era tempo di illusioni, dei talk show, dei grattacieli, della babele, della ricchezza, della onnipotenza della scienza e della tecnica, della conquista dello spazio. Ma ci nascosero l’altra faccia della medaglia.
Tutto cambia perché nulla cambi. Il mondo era in una guerra perenne. C’era benessere per gli affamatori della terra e, per tanti, povertà, tanta povertà… fino a morire di povertà. In casa nostra, la casa dei campanili tutto ritornò a essere un dejà vu, mentre un esercito di disperati viaggiava su carrette del mare cercando di fuggire da un mondo in guerra e sul crinale di una distruzione definitiva.
Vennero le immagini di una deportazione di bare su camion militari. Un viaggio nella notte verso forni crematori. Volti cari non baciati. Solitudine non consolata. La prudenza, il non essere contagiati da un virus impietoso giustificò le assenze.
La storia non è maestra di vita. Si ripete da sempre un tempo circolare e ripetitivo di guerre, pandemie, di eroismi e nefandezze, vita e morte frutto dell’albero del bene e del male che armò la mano assassina di Caino. La storia diventa esperienza se interrogata. Rende “l’uomostorico” un uomo consapevole e di esperienza ma come scrisse George Bernard Shaw “L’esperienza insegna che gli uomini non hanno mai imparato nulla dall’esperienza”.
La pandemia spagnola si sovrappose a un tempo di scannamento e morte. I giovani lasciarono la loro carne sui cavalli di frisia. Morì la meglio gioventù perché le dissero che per la Patria si doveva morire. Terminata la guerra, riposero il milite ignoto nel sacello dell’Altare della Patria. Era il corpo sfregiato di un soldato sconosciuto che ebbe come ultima consegna di ricordare un esercito di giovani sacrificati o giustiziati dai loro stessi fratelli per ordine dei tanti Luigi Cadorna che affollano la storia. Tornarono i reduci convinti di ricevere la medaglia della riconoscenza per le sofferenze sopportate ma si accorsero che le uniche medaglie erano le innumerevoli ferite che avrebbero volentieri nascoste alla commiserazione.
Ferite che non ebbero modo di rimarginare perché comparvero, nuovamente e in un tempo breve, gli assassini e con loro morte e distruzione. Fu il tempo dei dittatori e di un Re sciabolino e noi…noi fummo vittime e carnefici. Le città si trasformarono in cumuli di macerie. Gli uomini morirono al fronte e sulle montagne della resistenza. Un popolo di innocenti fu deportato nei lager o precipitato nella gola profonda delle foibe.
Rimase la miseria, il tempo dei sciuscià, dei palazzi sventrati come la casa delle bambole che si affacciavano sul porto di Napoli, di una Napoli come tante città buia e impaurita. Non altri rumori ma solo il muggito delle navi, un suono lungo, lacerante che riempiva l’aria di uno strazio infinito. Era un popolo di migranti che si imbarcavano: valigie di cartone, volti scavati dalla fame, vedove bianche e occhi di pianto e “nce ne costa lacreme st’America” cantavano.
Tutto era accaduto in quegli anni. Tutto il male possibile.
Al liceo il mio insegnante, un uomo dallo sguardo severo, figlio di quella Magna Grecia che civilizzò il mondo, ripeteva con una impercettibile aria di scetticismo un aforisma di Cicerone “Historia magistra vitae (la storia è maestra di vita)”. Un insegnamento che ispira il pensiero dei saggi ma è un inutile orpello per i cretini.
Fu sgretolato il muro di Berlino e furono canti e abbracci nella convinzione che da questo nascesse un mondo nuovo e senza divisioni perché eravamo diventati fratelli, figli di questo mondo.
Ma ci accorgemmo che era tempo di illusioni, dei talk show, dei grattacieli, della babele, della ricchezza, della onnipotenza della scienza e della tecnica, della conquista dello spazio. Ma ci nascosero l’altra faccia della medaglia.
Tutto cambia perché nulla cambi. Il mondo era in una guerra perenne. C’era benessere per gli affamatori della terra e, per tanti, povertà, tanta povertà… fino a morire di povertà. In casa nostra, la casa dei campanili tutto ritornò a essere un dejà vu, mentre un esercito di disperati viaggiava su carrette del mare cercando di fuggire da un mondo in guerra e sul crinale di una distruzione definitiva.
Vennero le immagini di una deportazione di bare su camion militari. Un viaggio nella notte verso forni crematori. Volti cari non baciati. Solitudine non consolata. La prudenza, il non essere contagiati da un virus impietoso giustificò le assenze.
La storia non è maestra di vita. Si ripete da sempre un tempo circolare e ripetitivo di guerre, pandemie, di eroismi e nefandezze, vita e morte frutto dell’albero del bene e del male che armò la mano assassina di Caino. La storia diventa esperienza se interrogata. Rende “l’uomostorico” un uomo consapevole e di esperienza ma come scrisse George Bernard Shaw “L’esperienza insegna che gli uomini non hanno mai imparato nulla dall’esperienza”.