Suicidi in divisa
16 Ottobre 2019In Italia 53 decessi per suicidio nelle Forze dell’ordine solo da gennaio ad ottobre di quest’anno. Si tratta di un numero molto elevato per non destare una serie di perplessità.
Violenti contro sé stessi e non solo. Fra gli uomini in divisa il triste fenomeno assume proporzioni allarmanti: stiamo parlando di più di un suicidio a settimana. Ricercatori, psicologi e psichiatri sanno che questa è una stima approssimata per difetto perché a questo segmento inerente una particolare tipologia di lavoratori bisogna aggiungere i suicidi in altre categorie sociali, specie negli adolescenti. Il quadro sociale diventa più drammatico se consideriamo – e dobbiamo considerare con molta attenzione – i casi di tentato suicidio e i comportamenti suicidogeni espressi nelle condotte ad alto rischio come l’uso di sostanze, la guida spericolata e l’auto-lesionismo, anche non esplicitamente suicidogeno.
Sul tema, uno dei primi allarmi è stato dato – già anni fa – dagli psicologi militari degli USA quando in un Congresso dell’Apa degli esperti hanno indicato che – numeri alla mano – i loro militari suicidi superavano il numero di vittime americane in Korea, Vietnam, Iraq, Iran, Afganistan e in altre operazioni belliche. Il numero dei suicidi in circa il 50% dei casi era relativo ai soldati, gli altri erano amministrativi che non erano mai stati in prima linea. Inoltre, le spese per curare i veterani da Dpts (Disturbo post-traumatico) erano superiori alle spese per tenere lo stesso numero di soldati nelle basi belliche.
Dopo gli USA anche il Brasile e altri Paesi nel mondo hanno denunciato cifre impressionanti riguardanti il suicidio fra militarie e Forze dell’Ordine ed è per questo che in vari paesi il suicidio è stato paragonato ad una epidemia mondiale o a delle vittime di guerre non dichiarate.
In Italia, fin dal 2003 è stato avviato un progetto per il supporto fra pari. La figura del “pari” è quella di un poliziotto che ha vissuto esperienze di stress professionale, formato per dare supporto emotivo ai colleghi che si trovano a vivere situazioni critiche di servizio.
Il progetto Chirone è stato ideato per la Polizia Stradale e la Polizia Ferroviaria allo scopo di dare delle linee guida per aiutare a gestire emotivamente e ad affrontare concretamente la comunicazione di morti violente per incidente o per suicidio, ai familiari delle vittime. Come si potrà osservare, è stato già fatto qualcosa ma sembra non abbastanza, né in Italia né in altri Paese del mondo, circa la prevenzione del suicidio, e non solo nelle Forze dell’ordine e nelle Forze armate, anche nei civili. E, in particolare, non è stato fatto abbastanza per gli adolescenti dal momento che il numero degli adolescenti con ideazione suicidaria, autolesionismo suicidario, condotte suicidarie, tentati suicidi e suicidi compiuti è in costante aumento.
Cosa fare? Come continuare a fare qualcosa? In che direzione?
Come per tutte le realtà complesse è importante chiarire il problema da risolvere. Per studiare la prevenzione del suicidio è necessario specificarne la tipologia e differenziale il suicidio. Le principali tipologie del suicidio sono: seguito da uno o più omicidi, il suicidio dopo uno o più tentativi, il suicidio con un messaggio scritto, le particolari modalità per portare a termine il suicidio, il luogo, l’ora e il contesto. Sono anche importanti i segnali che si lasciano (la scena) per chi interverrà dopo il suicidio. Vi sono molte altre sotto-categorie per selezionare il comportamento suicidario degli uomini e donne secondo l’età, la condizione sociale e il lavoro o la struttura familiare. Quelle appena indicate sono tra le più essenziali per le ricerche.
Attualmente le ricerche che sono di mio interesse sono quelle orientate verso le predisposizioni di vulnerabilità e quindi verso la diagnosi precoce del possibile aspirante suicida. In questo ambito sappiamo che circa un quarto dei suicidi portati a termine in tutto il mondo hanno una correlazione con la diagnosi di Disturbo bipolare e questa diagnosi implica un rischio 15 volte superiore a quello della popolazione generale. Mentre i tentati suicidi per coloro che hanno una diagnosi di Disturbo bipolare Tipo 1 e Tipo 2 sono intorno a 32,4% e 36,3%. Un altro dato molto significativo per i clinici è che oltre il 70% dei pazienti ambulatoriali con disturbo dissociativo dell’identità ha tentato il suicidio. Ciò che più interessa dal punto di vista dell’applicazione di un progetto preventivo sono i dati generali, come quelli appena considerati e tanti altri, ma in più i dati specifici di un particolare territorio e di una categoria, per esempio le Forze dell’Ordine in Italia.
Se dovessi indicare un punto di partenza per un progetto di prevenzione relativamente al suicidio, io partirei dai risultati di alcune meta-analisi condotte a livello mondiale e mi rifarei a dieci segnali di allarme: minacce di autolesionismo e pensare a come morire; aumento o eccesso di uso di sostanze tossiche; nessun motivo per vivere; nessun senso di scopo nella vita; ansia, agitazione e incapacità a dormire;
sentirsi intrappolati e senza via d’uscita; rifiutare l’aiuto; avvertire il futuro senza speranza; isolarsi e preferire di stare senza amici e familiari per restare a dormire; rabbia incontrollata e desiderio di vendetta; condotta rischiosa e impulsiva; drastico cambiamento d’umore.
Ovviamente è importante che uno o più dei suddetti elementi siano considerati da un clinico perché una valutazione improvvisata potrebbe portare a fraintendere alcuni elementi, come per esempio la percezione del futuro oppure del sonno in modo distorto.
Una frequente reazione alla notizia di un suicidio è “non me lo sarei mai aspettato” oppure “sembrava normale” ma anche “aveva dei problemi ma non si poteva mai immaginare che sarebbe arrivato a tanto”. Questo tipo di reazioni sono frequenti anche ina altri casi di violenza estrema su altri; come per esempio negli omicidi. Un motivo di queste reazioni sta nel fatto che chi osserva un potenziale omicida o suicida non è un professionista della psiche. Del resto, in non pochi casi, anche eminenti professionisti, potrebbero non intuire la reale pericolosità di alcuni soggetti. Infatti, vi sono casi in cui psicologi o psichiatri non hanno saputo prognosticare la pericolosità per sé o per altri di alcune persone. Le conseguenze sono state irreparabili.
Dalla mia esperienza, un elemento centrale, e spesso primario, è il punto numero 3 fra i dieci prima indicati: la vita appare non avere senso, senza uno scopo e quindi non vi sono motivi per vivere o per soffrire.
Oggi, tutti gli approcci psicoterapici possono affrontare questa problematica della mancanza di senso della vita, ma l’approccio umanistico-esistenziale è sicuramente quello più indicato. In particolare, la Logoterapia di Viktor Frankl (psichiatra ndr) si definisce proprio come terapia centrata del senso della vita. Il termine “Logoterapia”, infatti, è stato scelto dallo stesso Frankl considerando il “Logos” nel Vangelo di San Giovanni che indica il senso e il significato di ogni vivente. Per la logoterapia la percezione del senso della vita può essere alla base di psicopatologie se non è consciamente ben percepito ma può anche può essere alla base di un recupero psicologico quando è riacquistato. Chi ha un motivo per vivere, ha anche un motivo per soffrire e, se è necessario, anche per morire. Ciò che da un senso alla vita è la percezione di uno scopo utile al bene comune o all’amore per un’altra persona.
La formazione alla percezione del senso della vita dovrebbe essere alla base di ogni programma di prevenzione del suicidio ma anche di una crescita sana, sia individuale che di coppia o di famiglia e di società.
*Psicologo e psicoterapeuta, perito forense, già docente di psicologia generale e psicologia della personalità all’Università Lumsa-Humanitas di Roma.