Tommaso Cerisola, la pallacanestro per crescere nell’aspetto umano

Tommaso Cerisola, la pallacanestro per crescere nell’aspetto umano

7 Giugno 2021 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

 

L’articolo 6 comma 2 del decreto legge 22/4/2021 numero 52 precisa che in zona gialla, sono consentite le attività di palestre in conformità ai protocolli e alle linee guida adottati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per lo sport, sentita la Federazione medico sportiva italiana (FMSI), sulla base di criteri definiti dal Comitato tecnico-scientifico ma non specifica quali siano le attività e le discipline praticabili. In particolare non fa alcun riferimento agli sport di squadra e di contatto per i quali invece, in base al comma 3 del medesimo articolo 6, è consentito lo svolgimento all’aperto a partire dal 26 aprile, sempre nel rispetto delle linee guida.

Insomma tutto riprende “vita” ed il termine ripresa risulta di grande conforto per tutti noi che abbiamo “patito” coscientemente e con fermezza il lungo ed indispensabile periodo di “distanziamento” sociale.

Lo Sport che ha anche una grande valenza “sociale” rappresenta una grande risorsa per il mondo dei giovani.

Ed è proprio con un cestista emergente, di grande valore, che parliamo di quello che ha rappresentato il recente triste passato, Tommaso Cerisola.

Come ha affrontato e affronta la paura della pandemia, del contagio, e il disagio per le inevitabili misure restrittive?

L’aspetto che ho vissuto in maniera più difficoltosa è stata probabilmente la gestione e la selezione quotidiana della mole di notizie con cui venivamo esposti, le cui molto spesso avevano dei caratteri discordanti tra un giorno e l’altro. Per quanto riguarda la paura della malattia di per sé ho avuto la fortuna di convivere durante questo anno sia prima con uno specializzando di Rianimazione e un’infermiera di Terapie Intensive, sia adesso con medici che si sono occupati sin da subito del contact tracing e delle vaccinazioni, e questo ha fatto sì che divenissi un po’ “anestetizzato” da quel punto di vista, in quanto alla sera quando tornavano a casa era difficile che si parlasse d’altro. Sono riuscito infine ad affrontare le imposizioni delle misure restrittive grazie all’alienazione nello studio e all’imposizione di una ferrea routine, visto che è una possibilità che il mio corso di studi (molto più spesso mio malgrado) mi permette di fare.

 Quanti danni secondo lei le indiscriminate clausure e la confusa gestione politica hanno causato allo sport, in generale e poi alla pallacanestro in particolare?

È sicuramente stato un forte scossone per tutti i lavoratori del settore, ma non mi sento di dire che la chiusura delle strutture sia stata ingiustificata, soprattutto fino alla scorsa estate. C’è stato, e rimane tuttora, una forte componente di mala comunicazione che ha reso le disposizioni ancora meno comprensibili e giustificabili di quanto potessero essere, ma questo aspetto penso abbia permeato tutte le forme istituzionali. Avendo ormai la pallacanestro per me assunto quasi le caratteristiche di un hobby non ho avuto un effettivo danno, che sia economico o materiale, a seguito di questa situazione, ma ha sicuramente aiutato a far riaffiorare quella passione cieca degli anni delle giovanili; alla prima riallacciata di stringhe difatti, nonostante fosse solo un campetto all’aperto, mi sembrava di essere al Madison Square Garden.

 In qualità di studente di medicina, oltre che di sportivo agonista, quanto valore annette al binomio sport-salute?

Lo considero un fattore imprescindibile, e non solo ovviamente per l’aspetto fisico. Molto spesso mi ritrovo a pensare nel mezzo del giorno a quanto stia attendendo l’allenamento serale per poter scaricare ansie e frustrazioni della giornata. Al momento stiamo vivendo un periodo particolare perché la diet culture ha ormai portato molte persone ad avere un modo di pensare simil-ortoressico per quanto riguarda il rapporto tra lo sport e la salute, ovvero utilizzare lo sport solo come un mezzo per ottenere una perfetta forma fisica. Ciò porta a scegliere attività sportive che impattino di più a livello fisico rispetto ad altre, ad esempio il crossfit, prescindendo qualsiasi altro aspetto. Non sono un grande sostenitore di questo modo di pensare, ma di sicuro è meglio che non fare attività fisica di alcun tipo.

 Cosa le hanno dato in termini di crescita personale, sociale, e professionale l’attività sportiva in generale e il basket in particolare?

Il vero aspetto di crescita che credo di aver tratto dalla pallacanestro penso che sia proprio quello umano: in primis per l’inevitabile apprendimento della dinamica del gioco di squadra, capendo la necessità sia di un leader sia di un comprimario; in secondo luogo perché ti mette di fronte ai tuoi limiti, e di conseguenza poi ti porta a scoprire cosa davvero vuoi fare. Nonostante questa presa di coscienza sia molto dolorosa, perché dici direttamente a te stesso “no, tu non andrai mai in NBA”, dopo la prima scossa ti fa davvero avere una marcia in più perché sai effettivamente un po’ di più che cosa vuoi dalla vita.

Sicuramente è stato poi un movente per migliorare nell’organizzazione degli impegni nel quotidiano, soprattutto al liceo mi ricordo che avendo tre competizioni settimanali più gli allenamenti se non avessi sviluppato un po’ di doti organizzative non sarei riuscito ad avere una buona resa nello sport ma neanche nello studio. Infine direi che mi ha dato la possibilità di conoscere alcune persone che mi sono state accanto in fasi di sviluppo e di crisi, condividendo tante di quelle esperienze che alla fine mi hanno fatto rimanere profondamente legato a loro, nonostante magari si siano persi con alcuni i contatti. Però tu sai che se mai dovessi ricontattarli per una partitella loro ci sarebbero subito, senza dubbio.