Un albero di Natale e un grido d’aiuto
16 Dicembre 2024Il silenzioso malessere di una generazione.
Bari, Politecnico. Tra gli ornamenti di un albero di Natale, simbolo di gioia e speranza, una lettera spezza l’idillio con una verità cruda: “Caro Babbo Natale, non ho voglia di vivere”. Queste parole, scarne e disarmanti, provengono da uno studente universitario che, come tanti, vive un malessere profondo e invisibile, amplificato dall’indifferenza di una società che non sempre sa cogliere i segnali di chi soffre.
A intercettare quel messaggio è stata una docente del Politecnico, la quale, lungi dal considerare quella lettera come un episodio marginale, ha deciso di dare una risposta. Non solo ha reso pubblico l’appello, ma ha anche invitato apertamente lo studente a contattarla, aggiungendo un toccante “chiamami”. Questo gesto, apparentemente semplice, racchiude un significato potente: qualcuno è disposto ad ascoltare, qualcuno si interessa.
L’accidia del presente
Quello che emerge da questa vicenda non è un caso isolato, ma una condizione sempre più diffusa tra i giovani. Sociologi e psicologi concordano nel descrivere un’intera generazione alle prese con l’accidia, un sentimento che va oltre la semplice apatia. È una stanchezza dell’anima, un’assenza di desiderio che si traduce spesso in un mal di vivere insostenibile. Gli studenti universitari, in particolare, sembrano essere tra i più colpiti, schiacciati da aspettative elevate, precarietà economica e un futuro percepito come incerto e ostile.
Secondo i dati ISTAT, i disturbi legati alla salute mentale tra i giovani sono in costante aumento. Non sorprende, quindi, che episodi come questo stiano diventando sempre più frequenti. Ma dietro la statistica c’è un volto, una voce, un’anima che non riesce più a trovare senso. Quella lettera non è solo una richiesta d’aiuto: è uno specchio che riflette il vuoto esistenziale di tanti.
Il ruolo degli educatori: oltre l’insegnamento
La professoressa che ha scelto di rispondere a quella lettera non si è limitata a fare il suo lavoro. Ha incarnato un ruolo che oggi, più che mai, è cruciale: quello dell’adulto accudente. In un’epoca in cui le relazioni sono sempre più mediate dalla tecnologia e sempre meno autentiche, figure come questa docente rappresentano fari di speranza.
L’università, spesso percepita come un luogo freddo e burocratico, può diventare un presidio di umanità, un posto dove non si formano solo figure professionali ma anche persone. Rispondere a una lettera è un atto piccolo ma con un potenziale rivoluzionario: significa dire a qualcuno che non è solo, che vale la pena combattere, che il suo dolore non è invisibile.
Un messaggio universale
La storia di questa lettera non parla solo dello studente che l’ha scritta, ma anche di tutti noi. Quante volte ignoriamo i segnali di chi ci è accanto? Quante volte, presi dalle nostre vite frenetiche, evitiamo domande scomode per paura di risposte che non sapremmo gestire?
Viviamo in un mondo iperconnesso ma, paradossalmente, sempre più isolato. Eppure, la risposta a questo isolamento non è lontana: è nel coraggio di fermarsi, di ascoltare, di essere presenti. Ogni gesto, anche quello che sembra più piccolo, può fare la differenza.
Una domanda aperta
Mentre ci avviciniamo al Natale, tempo di doni e buoni propositi, questa vicenda ci invita a riflettere: cosa stiamo facendo, come individui e come comunità, per alleviare il dolore di chi ci circonda? Siamo davvero pronti ad ascoltare gli altri?
La lettera di uno studente disperato, che ha trovato eco nelle parole di una professoressa attenta, non ci offre risposte ma ci pone un interrogativo universale: possiamo essere il cambiamento di cui gli altri hanno bisogno?